Ricordando un amico

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RICORDANDO UN AMICO

Cominciò a frequentare assiduamente la mia famiglia quando stava raccogliendo testimonianze per poter completare quel bellissimo libro dal titolo “I mulini ad acqua nel territorio di Barga”, pubblicato nel 2009. Anche la famiglia di mio marito aveva avuto il suo mulino che ormai non macinava più dal 1920, quando in seguito ad una piena del Rio di Montebono, le acque erano state deviate e quindi al mulino era mancata l’acqua per continuare a macinare.

La nonna Lisetta, mia suocera, ricordava perfettamente le memorie di suo suocero che il mulino lo aveva visto attivo e anche le fatiche legate al suo funzionamento.

Emilio raccoglieva tutte le informazioni annotandole meticolosamente su un taccuino che via via rileggeva per assicurarsi di aver ben capito. La pubblicazione del libro suscitò un grande piacere all’interno della mia famiglia, soprattutto in mia suocera quando una sera Emilio si presentò a casa regalandole il libro terminato, con tanto di dedica “A Lisetta con infinita gratitudine”.

Il veglio a casa nostra era diventato una bella abitudine; Emilio spesso arrivava in compagnia di Pietro Guidi, anche lui originario della Val di Corsonna e quasi coetaneo della nonna. Le loro conversazioni erano ricche di memorie di vita e di tradizioni condivise.

Una volta, seduti al tavolino, sbucciando fumanti mondine venne fatto, con i miei figli che scrivevano, il censimento di tutti i capannelli esistenti sulla nostra montagna. Il capannello era il luogo dove, in altura, venivano portati tutti gli animali, soprattutto pecore al pascolo durante il periodo estivo. Tutta la famiglia si spostava verso l’alto e il capannello diventava la casa per l’estate. Non era però un luogo di villeggiatura, ma le giornate erano caratterizzate da tanto lavoro e tanta fatica. Oltre a pascolare il bestiame bisognava occuparsi di accantonare il fieno per l’inverno, seminare patate, segale e ortaggi per l’approvvigionamento della famiglia. Intorno al capannello c’erano i loghi, terreni sottratti alla boscaglia e ripuliti dalle piante e dagli arbusti; setacciando la terra si formavano così tanti piccoli campetti, le salde e anche dove il terreno non era ”pari”, venivano ricavati dei terrazzamenti, vere opere di ingegneria, ancora visibili oggi.

Lisetta e Pietro ricordavano tutte quelle persone che si erano prodigate per rendere il terreno dove dovevano vivere più fruttuoso possibile, senza risparmiarsi a tanti sacrifici e fatiche. E così venivano menzionati i vari proprietari dei loghi dove il capannello sorgeva: il Santino, il Domenico, il Dante, il Diecimo e …

Emilio affascinato da questi racconti, ascoltava con attenzione e stimolava con domande ben precise dove si notava grande curiosità e competenza. Quando poi portò a farci vedere la documentazione che testimoniava che a Gemina, intorno al 1500, era presente un altoforno per fondere il ferro con l’autorizzazione anche alla produzione di chiodi destinati alla costruzione delle galee fiorentine, la curiosità degli anziani si fece subito più acuta, in quanto tutti erano convinti che proprio lì, dove diceva Emilio, avevano visto la peschiera del Raimondo di Gemina. Emilio, con il suo fare calmo e bonario, spiegò che la struttura fu trasformata in peschiera molto tempo dopo dai successivi proprietari per esigenze personali, ma che in origine era un altoforno. Lì, dove era disponibile tanto legname e acqua, c’era stata sicuramente una fabbrica che lavorava il ferro, come testimoniato dai documenti da lui ritrovati. “Ecco perché lì vicino, ci chiamano alla fabbrica!!!” dissero incuriositi i due anziani.

Da grande ascoltatore quale era, annotava sul suo taccuino, i vari detti ed espressioni utilizzate dagli anziani, come i proverbi, che tanti ho ritrovato nella pubblicazione “L’antica civiltà contadina e artigiana attraverso la saggezza dei nostri proverbi”. Nelle nostre chiacchiere, spesso utilizzava un’espressione divertente per descrivere una persona eccentrica che però, a mio avviso, rispecchia la complessa  realtà di oggigiorno: “Il diritto un ce l’ha e il rovescio un gli si trova!”

Come aveva ragione  l’Emilio!

Emilio si distingueva anche per la sua grande abilità manuale. Ricordo l’ammirazione e lo stupore di tutti noi  quando ci mostrava le miniature del suo mulino e del suo metato descrivendone dettagliatamente i vari particolari riprodotti in scala: i materiali usati, le attrezzature, la chiave nella porta con tanto di serratura funzionante …

Alla nascita delle mie nipotine regalò a entrambe due gabbiani costruiti con il compensato che sospesi a dei fili pendenti dal soffitto sembrano sempre in volo che le mie bimbe tuttora ammirano affascinate.

Dalle chiacchierate con Emilio, nasceva sempre l’interesse e la voglia di indagare per trovare il perché su vari temi come, l’utilizzo del diaspro presente nel nostro territorio, la toponomastica locale come ad esempio perché Merizzacchio si chiama così, oppure ridere a crepapelle per una semplice fola, commissionata a Pietro Guido (poeta autoctono), in occasione di un episodio vissuto durante il viaggio di ritorno dal veglio, in una serata di tormenta.

All’avvicinarsi del Natale, si presentava sempre con il vischio, a volte con un semplice rametto oppure con un mazzetto legato con un umile spago. Nel porgerlo si vedeva cadere dall’alto delle sue mani e sembrava già di percepire il buon augurio che voleva trasmettere.

Che bei ricordi!

Emilio ci manca. Spesso capita di pensare a lui quando sentiamo menzionare un proverbio; quando facciamo il castagnaccio di cui era ghiotto; quando sentiamo un qualche accenno storico che magari ci sembra un po’ strampalato, quanto vorremmo poterci riconfrontare con lui.

Non più tardi di due sere fa, mio marito, mentre eravamo a tavola in ritardo come spesso ci succede, disse: “Ma lo sai che mi è sembrato di sentire suonare il campanello, la prima volta piano poi più forte, proprio come faceva l’Emilio!”.

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