A quello strano ragazzo la pioggia non solo piaceva, ma ne avvertiva quasi il bisogno.
Non che disdegnasse una bella giornata di sole in cui andare al mare o a divertirsi con gli amici ma, dopo che i giorni di bel tempo si erano inanellati come tante gemme luminose di una collana, qualcosa dentro di sé lo spingeva a desiderare che piovesse.
Non sapeva di preciso quando avesse cominciato a essere così ma, se ci pensava, si rivedeva da piccolo in piedi su una sedia impagliata a seguire col ditino le scie delle gocce che scivolavano sul vetro della finestra di cucina per poi raccogliersi in basso, sullo stucco screpolato dal sole e dal vento.
Crescendo, si accorse come l’argentino rumore della pioggia sui tegoli del tetto o il suo “tap-tap-tap” sulle grandi foglie degli alberi che ombreggiavano la sua casa toccassero alcune corde del suo io che neanche aveva sospettato di possedere.
Della pioggia amava il suo cadere obliquo illuminato dai fanali delle auto, l’asfalto lucido che rifletteva i bagliori delle insegne al neon e persino il sordo rumore delle gocce sulla tela del suo ombrello, dove la luce dei lampioni si scindeva in caleidoscopie colorate che cambiavano forma al girare del manico.
In certe piovose sere primaverili, quando le gocce si fissano come lacrime alle fronde degli alberi, potevi vederlo passeggiare nel viale
che porta alla sua casa immerso in chissà quali pensieri.
Altre volte, invece, si lasciava affascinare dalle grandi pozzanghere in cui, come nella famosa canzone “The Ripples” dei Genesis, sempre nuovi cerchi concentrici deformavano le immagini riflesse allargandosi fino a interferire l’uno con l’altro, e solo qualche rumore improvviso riusciva a richiamarlo alla realtà.
L’idea di essere un po’ diverso dagli altri non lo sfiorava minimamente e con innocente naturalezza si godeva queste sensazioni che lo facevano solo star bene.
Ciò nonostante, qualcosa gli diceva che era meglio che tenesse per sé
questa sua particolarità, alla quale neanche sapeva dare un nome, perché la vita gli aveva già insegnato che non appena apri un po’ l’armatura c’è qualcuno pronto a infilarci una spada per trafiggerti.
Di recente, però, leggendo i poeti maledetti, e Baudelaire in particolare, aveva notato come il termine “spleen” potesse, in qualche modo, richiamare quella melanconia che lui era solito provare proprio in certe giornate di pioggia e aveva accolto quella novità come un’insperata illuminazione che lo faceva sentire meno solo.
Dopotutto, pensava, se nel passato c’era stato chi provava le sue stesse sensazioni, perché non poteva esserci ancora adesso qualcuno che, come lui, era capace di gioire anche solo delle gelide gocce che, bagnando la mano che regge l’ombrello, strappano brividi sottili che corrono lungo la schiena?
Si, da qualche parte ci doveva essere un’anima come la sua e lui l’avrebbe trovata!
Assorto in questi pensieri ascolta l’insistente crepitio della pioggia mentre, nei loro impermeabili dai baveri rialzati, frettolosi passanti gli dedicano fugaci occhiate distratte.
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