Il recente post corredato da bellissime foto del Lago Santo condiviso da Catia Santoni mi ha riportato alla memoria un episodio di tanti anni fa e se avete un po’ di tempo e di pazienza ve lo racconto.
Anche quell’estate il Cappellano organizzò il consueto campeggio in montagna al quale noi ragazzi partecipavamo sempre numerosi perché era un’esperienza entusiasmante e di vero divertimento.
A parte il vivere in tenda insieme agli amici, che era di per sé già un’avventura, l’indimenticabile don Lido organizzava escursioni nella natura, un agguerrito torneo di calcio, attività di ogni tipo e perfino i “Giochi Olimpici”.
Tutto era realizzato alla buona, con molta voglia di fare, tanta fantasia e usando materiale del posto, ma le gare erano vere e il tifo infuocato.
Dopo alcuni campeggi effettuati all’Alpe di S. Antonio e all’Argegna, per quell’estate venne scelto l’incomparabile scenario del Lago Santo.
Le tende canadesi, da quattro posti ciascuna, vennero piantate in una piccola radura tra il Rifugio Bertagni, dove consumavamo i pasti, e il ben noto Rifugio Marchetti con la sua spettacolare vista sul lago.
Ormai era passata una settimana di tempo splendido in cui nessuno aveva avuto modo di annoiarsi anche solo un minuto.
Quel giorno, al campo sportivo delle Tagliole, c’erano state le Olimpiadi in cui avevo vinto la gara del salto in alto e mi ero piazzato secondo, dietro al Patrizio Giovannelli, nei cento metri piani.
Per la verità avevo vinto anche nel lancio del peso ma, siccome sapevo di aver fatto un movimento non troppo regolamentare, quella medaglia di cioccolata avvolta nella sua stagnola d’oro sentivo di non meritarla e così, dopo averci rimuginato un bel po’, la riportai a don Lido che mi guardò negli occhi, mi batté una mano sulla spalla e disse:
«Ora si!…»
E io mi sentii subito leggero e spensierato come prima.
Dopo il consueto dopocena, passato a giocare a carte e a scherzare sulla terrazza del rifugio Marchetti, al fischio del Cappellano entrammo nelle tende e ci mettemmo a dormire, stanchi morti.
Durante la notte il vento prese a sibilare tra gli alberi e a far sbattere i teli delle tende, tanto che dovemmo uscire a stringere le corde e a rinforzare i picchetti prima di poter tornare, intirizziti, nel tepore dei sacchi a pelo e sprofondare di nuovo in quel sonno profondo tipico della nostra verde età.
La mattina dopo, con grande stupore, ci risvegliammo in un clima tanto rigido quanto imprevisto; la temperatura era precipitata di colpo intorno allo zero e forti raffiche di tramontana spazzavano il placido Lago Santo le cui acque, dal consueto verde smeraldo, erano diventate di un cupo grigio ferro e si abbattevano, rumorose, sulla riva.
Di uscire fuori nel freddo di un’estate che si era trasformata di colpo nel più rigido degli inverni non se ne parlava proprio, così ce ne stavamo al caldo nel rifugio Marchetti giocando a “Tressette alla meno” o a “Scala 40” e trangugiando del tè bollente, mentre i più grandi facevano calare vertiginosamente il livello delle bottiglie di grappa alla prugna esposte dietro al bancone del bar.
Già da allora affascinato dalla potenza della natura, me ne stavo a guardare le rabbiose folate di vento che strappavano alle onde del lago biancastre gale di spuma e, come me, altri ragazzi schiacciavano il naso ai vetri delle restanti finestre appannandole col respiro.
Poi, d’un tratto, apparvero tre figure indistinte e imbacuccate che avanzavano nella tormenta mentre le cime delle piante ondeggiavano come impazzite.
Arrivate nella spiaggetta davanti al rifugio le tre figure, che si rivelarono essere due uomini e una donna, si guardarono intorno e presero a spogliarsi restando completamente nude.
Al grido di «C’è una donna nudaaa!!!” anche i più solitamente scettici e dubbiosi si precipitarono alle finestre, sgomitando senza esclusione di colpi per riuscire a vedere qualcosa nella calca.
Assicuratisi di avere un pubblico che li guardava con gli occhi sgranati, i tre si tuffarono nelle gelide acque spazzate dal vento.
Con grida gutturali in tedesco e smorfie che dimostravano chiaramente che pativano un freddo cane, portarono avanti la loro bravata per un paio di minuti e poi, intirizziti e violacei ma orgogliosi per aver dimostrato ancora una volta la superiorità della razza ariana a quei pavidi italianetti che li guardavano dalle finestre del rifugio, tornarono a riva.
Ci mancava che urlassero “Deutschland über alles!” e poi il quadro sarebbe stato completo.
Asciugatisi alla meglio, si rivestirono e in breve scomparvero per sempre dai nostri occhi, ma non dai nostri ricordi di ragazzi dei primi anni settanta che una donna nuda “vera” non l’avevano ancora mai vista.
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