Qualche giorno fa nel rispondere a un mio amico che, conoscendo i miei trascorsi militari, mi chiedeva quale fosse l’arma che mi avesse dato più soddisfazione maneggiare, mi sono trovato parecchio in difficoltà.
«Non ti sai decidere tra il lanciarazzi Stinger e i missili controcarro TOW?» ha detto il mio interlocutore, vedendomi alquanto incerto.
«No, tra la fionda e il fucile a gommini!» ho risposto.
Credo che ancora adesso pensi che l’abbia preso in giro ma, per quanto possa sembrare incredibile, è proprio così e se avrete voglia di proseguire nella lettura capirete il perché.
Avevo quasi 5 anni ed ero arrivato da poco ad abitare alle Case Operaie, un complesso di appartamenti che la ditta S.M.I. di Fornaci riservava ai propri dipendenti.
Per i ragazzi che vi abitavano quel posto era un autentico paradiso con grandi spazi verdi da riempire inventando mille giochi al riparo da ogni pericolo.
Dopo alcune “incomprensioni” iniziali che fruttarono qualche occhio nero e un paio di denti di latte feci amicizia con tutti e, completamente ignaro di cosa stava succedendo, giocavo comportandomi con la naturalezza innata dei bimbi.
Ho detto “ignaro” perché ero totalmente all’oscuro del fatto che una vera e propria commissione mi stesse osservando e valutando attentamente.
Durante uno di quei pigri pomeriggi d’estate nei quali il catrame dei terrazzi e l’asfalto della strada si scioglievano al sole e le cicale frinivano senza posa, uno dei ragazzi più grandi si avvicina con aria circospetta e mi fa:
«Domani, a quest’ora, fatti trovare che ti si porta nella Società Segreta!».
Dalla sorpresa rimasi a bocca aperta e, senza riuscire a emettere alcun suono, mi limitai ad annuire inghiottendo una saliva che si era fatta improvvisamente scarsa.
Benché non avessi la più pallida idea di cosa fosse una Società Segreta dentro di me si faceva sempre più strada l’idea che dovesse essere qualcosa di grosso, eccitante e ammantato di mistero.
Quella notte dormii poco, la mattina seguente sembrò non passare mai e anche le prime ore di quell’afoso pomeriggio presero a scorrere più lente del solito ma, finalmente, arrivò anche il momento tanto sospirato.
Venni portato nello “stanzino” (come erano chiamati i ripostigli di corredo a ogni appartamento) della famiglia Storai e invitato a salire su per una stretta scala di legno.
Al piano superiore, talmente basso che ci si poteva stare soltanto seduti, nella penombra mi aspettavano Paolo Storai, Mauro Campani e Fabrizio Picchi, i ragazzi più grandi e carismatici di una banda il cui numero si aggirava intorno a una ventina di monelli difficilmente catalogabili col metro attuale.
Dal finestrino filtravano, obliqui, alcuni raggi di sole che facevano brillare il pulviscolo del quale era satura quell’aria che sapeva di legno asciutto e invecchiato.
Non avete idea di quanto fossi intimidito…
Fu il Paolo a parlare per primo:
«Ti s’è osservato!» disse, fermandomi il respiro.
«Ti picchi con gli altri ragazzi, le prendi e le dai, ma un sei mai andato a piangere a casa. Corri forte, un c’è più un albero su cui un ti sai arrampicare e stai diventando bravo anche a lanciare il coltello».
Mentre il mio cuore riprendeva a battere quasi normalmente, continuò:
«Insomma, ci sei garbato e s’è pensato ch’era l’ora di darti questo!»
Così dicendo, mentre gli altri annuivano seri, da dietro uno dei travi tirò fuori un fucile a gommini!
Ancora oggi mi ricordo lo stupore e la gioia che provai in quel momento, ma non credo di riuscire a descriverlo a dovere perché chi non è stato bimbo in quegli anni non può capire il sentimento di rispetto e di emulazione che i più piccoli provavano nei confronti dei ragazzi più grandi.
Incredulo, accarezzavo con lo sguardo quel fucilino fatto con due pezzi di manico di scopa inchiodati e con una molletta di legno per stendere i panni senza avere il coraggio di allungare le mani per prenderlo.
«Adesso che hai il fucile devi stare pronto perché ci sarà la guerra contro i ragazzi delle Case Fanfani, che ogni tanto sconfinano nel nostro territorio» dissero.
In pochi minuti mi ritrovai armato e arruolato in un esercito della cui esistenza fino a poco prima neanche sospettavo.
Un potente esercito il cui capo era il Sauro Vannini perché, oltre ad essere uno dei più grandi e forti, aveva un bellissimo elmetto da pompiere ereditato da suo nonno Sisto, e nella scelta di un capo cose del genere contavano eccome!
Quella sera portai il fucile a letto con me e ci dormii abbracciato tutta la notte.
Il giorno dopo, col petto gonfio di orgoglio, iniziai a partecipare ai pattugliamenti lungo la riva del Rio Torbo insieme agli altri “soldati”.
Col passare del tempo imparai ad aggiungere altre mollette al fucile, fino ad arrivare alla ragguardevole potenza di fuoco di cinque colpi che mi permetteva di chiamarlo “mitra”.
Presi ad andare di nascosto dal Cecco Verzani a fregare le camere d’aria di bicicletta per costruirmi da solo quei tremendi “gommini a nodi” che andavano più veloci e più lontano di quelli normali e se ti prendevano nelle gambe nude dovevi per forza correre e massaggiarti finché non passava il dolore.
In seguito ho capito che il Cecco era ben contento che prendessi quei pezzi di gomma che non potevano più essere riparati così non doveva smaltirli lui ma, sul momento, mi sembrava di essere un furbissimo incursore.
“Quelli delle Fanfani” non si fecero più vedere e la guerra non ci fu ma, dentro di me, ero certo che se avessero provato a sconfinare di nuovo con me e il mio mitra a gommini avrebbero trovato pane per i loro denti!
Vania Pierini
20 Aprile 2024 alle 13:49
Bello questo racconto ! Spaccato di una vita di giovani ‘eroi’ che si divertivano con un pezzo di legno e qualche ‘gommino’ Eppure che felicità e che emozione … niente giochi on line, niente telefoni super costosi e , soprattutto, niente violenza cattiva !!!
Eppure quanta felicità in quei giochi !!! Quanta socialità e amicizia .