Il bimbo del treno

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“Binario triste e solitario…”
così diceva una canzone cantata da Claudio Villa molti anni fa e, in effetti, pochi luoghi richiamano il concetto di solitudine come una deserta stazioncina di campagna in un assolato meriggiare estivo.
A maggior ragione se la confronti, squallida e disadorna com’è oggi, col luogo accogliente e fiorito d’un tempo, dove lo sbuffare del vapore si mischiava all’orgoglioso fischio del capostazione che, impeccabile nella sua divisa grigia, agitava la bandierina rossa facendo partire il treno in un concerto di sonore e candide esplosioni che facevano tremare l’aria.
Chiudo gli occhi e rivedo i lunghi treni merci in manovra, la fontanella che regalava acqua fresca dal vago sapore ferroso, le aiuole fiorite, la grande voliera dove frullavano uccelli dalle piume variopinte e la gente seduta sulle panchine che aspettava la nera e sbuffante locomotiva o la marrone Littorina dalla pancia rossa, annunciati dall’allegro suono della campanella mentre il grande orologio a sbalzo sul marciapiede scandiva ore di quieta operosità.
Ero un bimbo tremendamente innamorato dei treni e costringevo la nonna Anita a portarmi quasi ogni giorno alla stazione di Fornaci.
A quel tempo via delle File era composta solo da una manciata di case e poi cominciavano i campi a perdita d’occhio e fino al fiume.
Percorrevamo una stradina sterrata contornata di siepi dalle quali occhieggiavano gustose more che non mancavamo mai di spiluccare riempiendoci la bocca del loro buon sapore e impiastricciandoci le dita.
Arrivati al passaggio a livello, la nonna si fermava a parlare con una sua amica, dai capelli bianchi come lei, che ci offriva sempre un bicchiere d’acqua del pozzo artesiano che aveva in giardino; dopo tre o quattro colpi della pompa a mano che strideva, sommessa, sgorgava un fiotto d’acqua trasparente e freschissima che ci rinfrancava ogni volta.
Per la verità non dovevo faticare molto a convincere la nonna a portarmi “dai treni” perché aveva allacciato una bella e assolutamente platonica amicizia con un elegante signore col quale s’intratteneva conversando su una delle panchine mentre con un occhio vigilava che non mi mettessi nei guai.
Ben presto divenni amico del personale della stazione che, accortosi che conoscevo a pappagallo le capitali di tutte le più famose nazioni del mondo insegnatemi dallo zio Guglielmo, non mancava mai d’interrogarmi all’improvviso e a bruciapelo…
Passava un ferroviere intento nei suoi compiti e…
«Daniele! La capitale dell’America?»
e io: «Uascintòn!»
rispondevo con prontezza, mentre la nonna Anita gonfiava il petto d’orgoglio.
S’affacciava il capostazione dal suo ufficio e…
«E quella della Russia?»
«Mócca!» rispondevo, scattando come una molla.
E poi Madridde, Buenosaire, Novadeli, Asterdàm, Tòcchio… lo zio mi aveva perfino insegnato che c’erano due Germanie: quella di Bon e quella di Pancòvve!
A ogni risposta esatta mi arrivava un “bravo” accompagnato da una carezza, un sorriso o un finto scapaccione che mi scompigliava i capelli.
Ben presto la notizia che nella stazione di Fornaci c’era un buffo bimbetto di neanche quattro anni che storpiava i nomi di tutte le capitali e che era capace di riprodurre con la bocca tutti i rumori del treno, dallo sbuffo del vapore allo stridore dei freni, si propagò su tutta la linea ferroviaria e, in qualche modo, divenni famoso da Lucca a Piazza al Serchio.
«Daniele… vieni che si telefona a Bagni di Lucca!»
Dalle nostre parti il telefono nelle case era ancora di là da venire, e potete immaginare la mia gioia quando il capostazione mi faceva telefonare alle altre stazioni con quel particolare apparecchio montato su una lastra di bianco marmo appesa alla parete del suo ufficio.
Nel mio ruolo di “Sotto-Vice-Capostazione” dovevo aiutare i ferrovieri a muovere le leve degli scambi che fingevano essere troppo pesanti da azionare senza di me, aiutare a scaricare i pacchi e i giornali, e mi facevano anche posizionare la bandierina rossa quando suonava la campanella che annunciava l’arrivo del treno.
Ai miei occhi di bimbo era un mondo fantastico in cui tutti sorridevano e mi volevano bene e io non potevo essere più felice di così!
A volte, ancora adesso, mi chiedono se da piccolo sia stato all’asilo…
Asilo?… Avevo una stazione da tirare avanti, io!
C’erano due macchinisti del cosiddetto treno merci, si chiamavano Salvadori e Malecoli, che mi presero talmente in simpatia da farmi salire sulla locomotiva ogni volta che facevano le manovre per sganciare e agganciare i vagoni.
Mi procurarono perfino una palettina con cui, mentre il treno andava su e giù lungo i binari, “aiutavo” a spalare il carbone e metterlo nella bocca della fiammeggiante fornace che si apriva davanti ai miei occhi intimoriti e affascinati allo stesso tempo.
Potete immaginare in che condizioni tornavo a casa, per la gioia della mamma che mi vedeva arrivare tutto sporco di nerofumo!
A Salvadori e Malecoli avevo fatto una testa così a forza di dire che durante la prima quindicina di settembre sarei andato al mare, al Bagno Adele di Lido di Camaiore, per curarmi quei bronchi che erano il mio punto debole; non potete immaginare la mia sorpresa quando una domenica mattina me li vidi arrivare sulla spiaggia!
Quasi non li riconoscevo vestiti così eleganti, con la cravatta e con le scarpe di cuoio che brillavano.
Non stavo nella pelle dalla gioia, li portai in giro per tutto lo stabilimento balneare e pieno d’orgoglio, li presentai anche al bagnino dicendo:
«Italo! Questi sono i miei amici macchinisti del treno!»
Avevano rinunciato a un meritato giorno di festa e riposo con le famiglie per venire a trovare questo buffo bimbetto innamorato dei treni… non lo dimenticherò mai!
L’odore caratteristico dei treni e il “profumo” del creosoto, specialmente in estate, regalavano alla stazione la sua inconfondibile atmosfera che respiravo, felice, a pieni polmoni mentre le mie orecchie assorbivano come spugne anche il minimo rumore.
Colori, suoni, odori, sensazioni… tutto era come doveva essere e non avrebbe potrebbe essere più perfetto di così.
Il trasporto su rotaia era molto più sviluppato di adesso e sui lunghi treni merci viaggiavano carichi di ogni genere.
Mi ricordo che una volta arrivò perfino un circo e ci volle un intero pomeriggio per posizionare i vagoni sul binario morto e far sbarcare i teli e i pali del tendone, le panche per il pubblico e tutti gli animali.
Non dimenticherò mai l’elefantessa Rosy che se le gridavi
«Canta, Rosy!!!»
emetteva un alto barrito che lacerava l’aria.
Non avevo mai visto un animale così enorme e quando quelli del circo mi dettero una mela da porgerle lo feci con un timore che scomparve al tocco gentile e delicato di quell’enorme proboscide che si muoveva sinuosa e prensile.
Il Salvadori, il Malecoli, il Capostazione, il Romano, il Vaschino, il Passero, l’elegantissimo signor Sandro… volti e figure sui quali il tempo cerca invano di posare la sua patina d’oblio s’affacciano spesso nei miei pensieri, insieme al Franchino che con la sua macchinina elettrica celeste mi ricorda che anche in Paradiso ci può essere un velo di tristezza.
D’un tratto una voce metallica e impersonale mi strappa a questi cari ricordi e il moderno treno arriva, tanto asettico e silenzioso da sembrare finto.
Niente allegro suono della campanella ad annunciarlo, niente sbuffi di bianco vapore, niente buon vecchio sferragliare, niente Capostazione.
Niente…
Incasso la testa nelle spalle e mi calo di nuovo in una realtà che devo sopportare, ma non mi piace perché non la riconosco come mia.

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