La stufa e kerosene

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Nella storia dell’umanità il secolo scorso è quello in cui si è avuto il maggiore progresso e penso allo stupore dei miei nonni, passati dal barroccio trainato dal cavallo alla conquista dello spazio, quando grazie a “quella scatoletta che tenete sempre in mano” poterono vedersi e parlare con i loro parenti dall’altra parte del mondo.
Accanto a quelle invenzioni che resteranno come pietre miliari ce ne sono altre cadute nell’oblio ma che, prima di diventare obsolete, hanno migliorato sensibilmente la qualità della nostra vita; una di queste è senz’altro la stufa a kerosene.
Una volta nelle nostre case c’erano il camino e la stufa a legna e ci si accontentava di riscaldare la cucina, che era l’ambiente in cui si riuniva la famiglia.
Era perfettamente normale che le altre stanze fossero fredde e che si rabbrividisse entrandoci, tanto che la nonna Anita, quando si accingeva a coricarsi per la notte, diceva che “andava in Siberia”.
Ognuno di noi “giovani con esperienza” ha nel cuore ricordi che parlano di pesanti coltroni di lana, la cui umidità evaporava col calore dello scaldino messo nel letto, e di risvegli col gelo che aveva ricamato sui vetri delle finestre quelle forme che gli anglosassoni chiamano “il giardino di Jack Frost”.
Tutto questo cambiò con l’avvento della stufa a kerosene che, all’inizio degli anni settanta, fu una di quelle invenzioni che permisero la conquista di un benessere domestico mai sperimentato prima.
Questa stufa, grazie a un combustibile che aveva un potere calorifico più del doppio di quello del legname, se piazzata strategicamente riusciva a riscaldare tutta la casa.
Comparvero le prime docce calde e il “gabinetto” diventò il “bagno”, un locale in cui potevamo lavarci quando volevamo senza dover aspettare il sabato pomeriggio per farlo, a turno, in cucina.
Per la verità c’era anche qualche prezzo da pagare, come il dover pulire di frequente i tubi che si imbrattavano di una fuliggine oleosa e il dover sopportare quel micidiale puzzo di kerosene che fuoriusciva anche dalle taniche chiuse.
Dopo qualche tempo, però, la forza dell’abitudine ci fece talmente assuefare che cominciammo a identificarlo quasi come un normale odore domestico che nelle case “doveva esserci”.
Insomma, a fronte di qualche piccolo disagio i benefici erano innegabili, anche se raramente potevano succedere inconvenienti come quello capitato a un ragazzo che conoscevo.
Aveva appena compiuto dodici anni e il su babbo gli disse «Ormai sei un omo e da oggi della stufa te ne occupi te. Così quando la sera io e la mamma si torna dal lavoro si trova la casa bella calda!»
Lui guardò attentamente come si faceva ad accendere la stufa e da quel giorno il riscaldamento della casa divenne affar suo, cosa che lo riempiva di orgoglio anche se quelle taniche rosse della ditta Cobel pesavano come accidenti e portarle su in casa dallo stanzino era una faticaccia.
All’ora stabilita riempiva il serbatoio della sua stufa di marca “Argo”, posizionava sul minimo la valvola che regolava l’afflusso del carburante nel bruciatore, gettava dentro un batuffolo di cotone fiammeggiante (il tanto strombazzato avviamento elettrico non funzionò mai), chiudeva l’oblò ed entro pochi secondi la stufa si accendeva senza problemi e senza sorprese.
Un pomeriggio, però, riempito il serbatoio, il batuffolo di cotone si spense subito… riprovò, ma il risultato fu lo stesso… al terzo, timoroso, tentativo si sprigionò un’enorme fiammata che per poco non gli bruciò il viso!
Pare che, per qualche inspiegabile motivo, la valvola fosse posizionata sul massimo, così il kerosene era passato direttamente dal serbatoio nel bruciatore e, adesso, avvampava tutto insieme facendo scricchiolare le lamiere della stufa che si dilatavano sotto quel calore enorme e improvviso.
Mentre un cupo rumore cresceva istante per istante, la stufa cominciò a tremare tutta, trasmettendo le vibrazioni al pavimento e alle pareti.
Con le orecchie sature di quel rombo spaventoso e la stufa che aveva assunto un colorito rossastro il ragazzo riuscì a chiudere la valvola del serbatoio, bruciandosi una mano, e scappò a rotta di collo da una casa che si era trasformata in un incubo infernale.
«Non ci posso fare nulla! Ora per colpa mia la stufa scoppia e distrugge la casa!»
Si diceva mentre si metteva in salvo fuggendo con la bicicletta.
Arrivato al “Botteghino” (il bar Biagiotti) si sedette fuori con lo sguardo fisso verso le Case Operaie aspettandosi da un momento all’altro un boato e una colonna di fumo nerastro che saliva nel cielo.
Tratteneva il fiato e, come in una lenta tortura, i minuti passavano senza che succedesse niente mentre il cuore batteva all’impazzata.
«Ma che fai, che sei bianco come un cencio?!»
Gli chiesero i neri baffi dell’Ottavio (il padrone del bar) ma, con lo sguardo fisso verso casa sua, il ragazzo non riuscì a rispondere perché anche deglutire la saliva era diventato difficile.
Poi, d’improvviso, un pensiero gli balenò nella mente.
«Se scoppia la stufa, è una bomba che distruggerà anche gli appartamenti vicini! Devo tornare indietro e avvertire tutti e, semmai, morire insieme a loro!»
Con mani che a stento reggevano il manubrio pedalava verso casa ripetendosi ossessivamente:
«Devo mettere in salvo la gente, e se qualcuno deve morire è giusto che sia io!»
mentre gli sguardi che incontrava sembravano altrettante condanne che gli trafiggevano l’anima.
Abbandonata per terra la bici, con le gambe più molli che avesse mai avuto iniziò a salire le due rampe di scale che portavano al suo appartamento all’ultimo piano, suonando tutti i campanelli; gli uomini erano al lavoro e le mogli dovevano essere a lavare ai pozzi o chissà dove perché non ottenne risposta.
Sull’ultimo pianerottolo si bloccò in preda al terrore: il rombo era assordante e da sotto la porta filtrava una vivida lama di luce rossastra che gli illuminava il volto e le pareti.
«La porta dell’Inferno!» si disse.
Dopo qualche angoscioso minuto, con le gambe che avrebbero voluto scappare, trovò il coraggio di salire gli ultimi gradini e girare la chiave nella serratura.
La porta si spalancò di colpo e lui venne investito da una folata di calore intenso: in casa ci saranno stati cinquanta gradi!
Il rombo si fece talmente forte che gli risuonava nello stomaco e la stufa, che da marrone era diventata di un bel color salmone, continuava a vibrare e rimbalzare mentre, incredibilmente, le giunzioni dei pezzi del tubo del camino si sfilavano e si infilavano di nuovo a ogni sobbalzo.
Dopo qualche minuto il rombo parve attenuarsi e la danza della stufa si fece meno frenetica: forse il kerosene si stava esaurendo e il peggio era passato!
Visto che non c’erano state esplosioni e tutti erano sani e salvi, adesso bisognava fare in modo che i genitori non si accorgessero di quello che era successo.
Nel tentativo di abbassare la temperatura, il ragazzo spalancò tutte le finestre permettendo al freddo dell’inverno di entrare in casa, ma di far tornare la stufa del suo colore iniziale non c’era speranza.
Tra un paio d’ore il babbo e la mamma sarebbero arrivati e lui si preparò al peggio.
Quando, finalmente, i genitori arrivarono a casa dal lavoro, davanti agli occhi increduli del ragazzo si svolse questa conversazione dai toni surreali:

«Aahh… senti che bel calduccio!» disse la mamma, togliendosi il cappotto.
«Di’ un po’… un ti sembra anch’a te che la stufa fosse un po’ più marrone?»
«Boh! A me un mi sembra davero» fece il babbo, stringendosi nelle spalle.
«E ti pareva che t’accorgessi di qualcosa, te?!»
«Sieee… e chi voi che l’abbia tinta?»
«Toh!… quella macchia d’umido nel soffitto di camera nostra è sparita e senti i muri come son belli tiepidi!»
«Davero! Qui ci vole un aumento della paghetta settimanale…»

Dopo quell’episodio, fortunatamente a lieto fine, il rapporto del ragazzo con la stufa andò avanti senza altri problemi, ma improntato a una certa ragionevole diffidenza, fino all’arrivo dei termosifoni.
Ma questa è un’altra storia.

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