A volte mi diverto a partecipare a quelle oziose conversazioni da bar che noi pensionati possiamo intraprendere proprio perché, usciti da un mondo del lavoro che con i suoi orari dettava i ritmi delle nostre vite, abbiamo del tempo da perdere.
Gli argomenti possono essere i più disparati e ognuno è convinto di avere ragione e di avere la ricetta per sistemare quello che non va, spesso con risultati esilaranti.
L’altro giorno, non si sa come, è uscito fuori il ricordo di quando, da piccoli, giocavamo a fare i cowboy e sono riaffiorati alla mente vecchi e cari ricordi di un tempo che non tornerà più.
Indossato cappello e cinturone con la pistola e legato un cordino a mo’ di briglie al manico di una vecchia scopa, con la tipica corsa zoppa che simulava il galoppo del cavallo e dandoci sonore pacche sulle cosce per ricreare il rumore degli zoccoli, si cavalcava in fantastici scenari di canyons e praterie presi pari pari dai fumetti di Tex e, per la verità, anche dalle buffissime strisce di Pedrito El Drito sulle pagine de “Il Monello”.
Avevamo anche un cane, un vecchio bastardone randagio che ci seguiva sempre e a cui avevamo dato lo scontato nome di Rin-Tin-Tin, ma quando lo incitavamo all’attacco col classico grido “YOOHOOO, RINTYYY!!!” restava a guardarci, perplesso, e poi si accucciava per farsi una bella dormita.
Il pensiero degli indiani incombeva sempre su di noi, tanto che durante le quotidiane uscite in ricognizione o per scortare le diligenze avvertivamo in modo quasi fisico i loro sguardi minacciosi di invisibili e spietati selvaggi in agguato.
Ogni tanto qualcuno diceva di vedere dei segnali di fumo levarsi dalle colline e qualcun altro raccontava di averne fatti fuori una mezza dozzina proprio lassù, dietro quelle rocce…
Si faceva finta di crederci ma, in realtà, gli indiani non si videro mai e i nostri fucili col tappino di sughero portati dalla Befana rimasero sempre muti.
Di giacche blu c’era pieno e spesso c’era da litigare per stabilire chi fosse lo sceriffo, ma trovare qualcuno disposto a fare la parte di quei pellerossa urlanti dei film americani era impossibile.
Semmai litigavamo per essere l’eroe bianco che difende la carovana dagli attacchi di quei selvaggi e che, alla fine, bacia la bella figliola bionda del capo dei pionieri.
Volevamo tutti essere “Gion Vaine”, insomma!
La discussione andava avanti tra risate e struggenti ricordi di un’infanzia perduta quando, a un certo punto, è uscito fuori uno a dire che lui ha sempre tenuto per gli indiani “Perché sono stati massacrati e derubati delle loro terre dal malvagio uomo bianco sempre a caccia di profitti con l’alibi di un malinteso progresso”.
Tutto vero, per carità, e anche adesso i nativi americani non se la passano bene nell’alienazione delle loro riserve, ma nella sua affermazione c’era qualcosa che strideva come un gesso sulla lavagna.
Il fatto è che noi, sebbene sulla via di un progressivo rimbambimento, ci ricordiamo bene di quando questo “progressista illuminato”, soffiando nella trombetta, guidava la carica del Settimo Cavalleggeri proprio contro quegli indiani che ora dice che amava tanto.
Credo che se era sbagliato giocare in quel modo, con pistole e fucili, lo sia altrettanto mentire per negarlo pretendendo di giudicare il passato alla luce di una consapevolezza raggiunta solo successivamente.
Solo all’inizio degli anni settanta del secolo scorso, in un clima di generale revisionismo, comparvero film come “Piccolo grande uomo”, “Soldato blu” e altri ancora, nei quali compare una più equilibrata ricostruzione di quanto realmente avvenuto in quel periodo storico e un nuovo rispetto nei confronti del popolo degli Indiani d’America e della sua cultura.
Noi, in fondo, eravamo solo dei bimbi degli anni sessanta che cavalcavano spensierati in un far west immaginario punteggiato da cactus e infidi serpenti a sonagli che nessuno di noi aveva mai visto davvero.
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