La mutina

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Era un sabato mattina di metà dicembre e io frequentavo la seconda elementare a Fornaci nelle scuole di Piazza IV Novembre che erano nuove, grandi e con tanto spazio per correre intorno alle aiuole e alla vasca dei pesci rossi prima dell’inizio delle lezioni.
A quel tempo ero un bimbo pieno di curiosità e voglia d’imparare e pendevo letteralmente dalle labbra del giovane maestro Benedetti, che come metodo di insegnamento era molto avanti rispetto al suo tempo e trovava sempre il modo di rendere le lezioni interessanti ma anche divertenti.
L’argomento del giorno era di quelli tosti:
“Come va usata la lettera H quando indica possesso”.
Alla lavagna vennero fatti numerosi esempi di frasi che prevedevano l’uso di questo particolare simbolo dell’alfabeto e a noi alunni fu chiesto di partecipare attivamente inventando situazioni e discorsi con risultati, a volte, bizzarri del tipo:
«Dopo la scuola andrò ha casa» scrive un bimbo sulla fatidica superficie nera.
«No, Carlo, qui la H non ci vuole perché non deve indicare possesso!» lo corregge il maestro.
«Ma, Maestro, la casa è mia!!!»
E così via, fino a quando al maestro sembrò che l’argomento fosse chiarito abbastanza.
Fu allora che, con aria da saputello, me ne uscii con:
«Maestro, ma se la H vuol dire possesso, perché il verbo AVERE si scrive senza?»
«Perché se scrivi HAVERE te lo segno rosso e pigli un brutto voto!!!»
tagliò corto il maestro, evidentemente allo stremo della pazienza.
Apprendere che questa lettera veniva chiamato anche “la mutina”, perché da sola non ha alcun suono, colpì non poco la nostra fantasia di bimbi e io, naturalmente, non feci eccezione.
Ormai mancava poco alla fine della lezione e il maestro, rendendosi conto che più o meno avevamo preso dimestichezza con quanto ci aveva insegnato, disse:
«Domani non c’è scuola ma lunedì mattina vi farò scrivere un piccolo resoconto di quello che avete fatto durante la domenica. Spero che userete la H nel modo giusto».
Al suono della campanella eravamo già spariti fuori, sciamando incontro al sospirato fine settimana tra risate e pacche sulle spalle.
La mattina dopo, io e i miei genitori partimmo di buonora con la nostra piccola 500 color antracite per far visita ad alcuni parenti di Firenze.
Entrati nell’autostrada iniziò un’interminabile processione a senso unico perché, come al solito, ci sorpassavano tutti.
Col naso schiacciato al finestrino seguivo con entusiasmo ogni macchina che entrava nel mio campo visivo per poi rimpicciolire più avanti fino a scomparire.
Auto di tutti i tipi e di tutte le marche, compresa quella FIAT 1500 che il babbo guidava ogni giorno per lavoro, ma la mia preferita era la Giulietta dell’Alfa Romeo col suo muso inconfondibile e la coda alta che sembrava disegnata dal vento!
Alla fine entrammo in città e, passando davanti a un grande edificio bianco, la mia attenzione venne attratta da una grossa H maiuscola bianca su sfondo blu.
«Babbo! Che vuol dire quel cartello lì?»
«Vuol dire che quello è un ospedale»
disse il babbo, mentre si districava nei grandi viali fiorentini pieni di un traffico che a Fornaci non ce lo sognavamo neppure.
Questa risposta dette il via a una serie di elucubrazioni mentali che mi tennero impegnato il cervello fino a quando, finalmente, tutto sembrò sistemarsi secondo una logica inattaccabile.
L’indomani mattina, a scuola, consegnai uno scritto che cominciava così:
“Ieri i miei genitori ed io siamo andati a Firenze a trovare gli zii del babbo che mi sono simpatici perché hanno un distributore della Total e mi regalano sempre le figurine ed i pupazzetti, ma prima di arrivare alla loro casa siamo passati davanti all’ospedale dei muti…”.

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