La letterina di Natale

-

Chi mi conosce bene sa che, ogni tanto, mi si insinuano nella mente pensieri e ricordi che iniziano a sgomitare per essere messi nero su bianco e non mi danno pace finché non lo faccio; l’ultimo riguarda la letterina di Natale, un rito che si celebrava nella mia famiglia e che non era poi così dissimile da quello che avveniva nelle altre case del paese.
Come quasi tutte le cose meravigliose che ho imparato prima di andare a scuola: le capitali del mondo, i fiumi più lunghi, i monti più alti e così via, me la insegnò lo zio Guglielmo, che da bambino era il mio eroe.
Innanzitutto dirò che la letterina della quale parlo non era indirizzata a Babbo Natale perché, a quei tempi, il vecchio pancione col costume dai colori della Coca Cola non ci era ancora stato imposto dal consumismo e per noi ragazzi era solo uno strano personaggio minore che si muoveva, un po’ ambiguo, ai margini della Festa Più Bella.
Qualcuno ipotizzava che potesse essere il marito della Befana ma questa tesi non ha mai attecchito, anche perché la sera del cinque Gennaio, quando la magica vecchina era stracarica di pacchi da consegnare, lui non si vedeva mai e a darle una mano, semmai, c’era il Befanotto, altro personaggio la cui identità è sempre stata alquanto dubbia.
È bene precisare, inoltre, che questo breve scritto non conteneva richieste di regali perché quelli, come sapete, da noi li ha sempre portati la Befana com’è giusto che sia.
Per farla breve, immaginatevi la mattina di un qualsiasi Natale degli anni sessanta del secolo scorso.
Con i postumi della veglia per la messa di mezzanotte e, più che altro, degli svariati poncini bevuti nel corso del solito giro degli auguri da amici e parenti, il personale maschile della casa si svegliava sbadigliando mentre le donne spentolavano a pieno ritmo già da tempo per preparare il pranzo di Natale che, secondo la tradizione, doveva essere un vero e proprio banchetto pieno di ogni prelibatezza che non ci si poteva permettere durante il resto dell’anno.
Mentre la cucina andava a tutto vapore, il capofamiglia e i figli maschi più grandi si mettevano il vestito della festa, il cappotto, quelle scarpe “buone” che si riservavano solo alle occasioni speciali, e uscivano sfidando il freddo per andare a fare un po’ di baldoria prima di pranzo.
Al bar tutti erano elegantissimi perché anche il più umile era vestito come un signore e, grazie alla tredicesima, poteva permettersi di fare bella figura con gli amici offrendo anche qualche bevuta.
Era un allegro carosello di sorrisi, capelli imbrillantinati, baffi curati, cravatte impeccabili e scarpe talmente lucide da far male agli occhi.
A ben guardare, solo le mani parlavano del lavoro duro e onesto col quale venivano sfamate le famiglie in un’Italia che sembrava finalmente rialzarsi dalle tragedie della seconda guerra mondiale.
Rientrati a casa, in un clima di allegra operosità e con stuzzicanti aromi che aleggiavano nell’aria, trovavano la tavola apparecchiata con la tovaglia bella e il servito buono.
Le case che frequentavo allora erano piccole, non più di tre stanze, riscaldate dal caminetto o dalla stufa a legna, mentre l’impianto elettrico era formato dalla famosa “piattina” che, fissata a vista alle pareti con minuscoli chiodini, portava la poca corrente detta “forza motrice” a fioche lampadine che pendevano dal soffitto coi loro piattelli smaltati di bianco.
Non di rado per accedere al gabinetto che, naturalmente, non era riscaldato, bisognava uscire fuori e, quindi, il bagno settimanale veniva fatto dentro una tinozza messa nella cucina, che d’inverno era l’unica stanza calda della casa.
Le camere erano così gelide che certe mattine ci svegliavamo con i vetri delle finestre gelati anche sulla superficie interna, e per uscire dal letto ci voleva tutta la volontà possibile…
Solo lo scaldino e i pesanti coltroni ci permettevano di passare l’inverno limitando i danni.
Descritte così potrebbe sembrare che fossero dimore cupe e tristi, invece brillavano di un’allegria e di un ottimismo che nel corso degli anni non ho più ritrovato.
In un’euforia non estranea all’effetto di qualche pistone tenuto appositamente in serbo, il pranzo volgeva al termine e la tovaglia veniva sparecchiata per servire il caffè.
Era questo il momento in cui il capofamiglia fingeva di accorgersi della letterina che, furtivamente, qualcuno aveva messo sotto al suo piatto…
Lentamente l’apriva ostentando stupore e, nel silenzio generale, iniziava a declamare quello che una calligrafia ben nota aveva scritto:

«Caro babbo, è Natale,
senza soldi si sta male.
Dammi almeno mille lire
per potermi divertire!»

Al termine della breve poesiola, tra risate e applausi, il capofamiglia apriva solennemente il portafoglio e con espressione tra il bonario e il divertito scuciva quelle mille lire che avrebbero permesso a noi ragazzi la possibilità di festeggiare un po’ con gli amici.
Col passare del tempo e con l’aumento dei prezzi, nella poesia le mille lire diventarono duemila e, poi, anche tremila, ma il rituale rimase invariato.
Lo so che adesso sembra poca cosa, ma con in tasca quelle poche immagini celestine del grande e barbuto Giuseppe Verdi ci sentivamo i padroni del mondo.

Lascia per primo un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.