Biplano

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Ogni tanto si ha bisogno di qualcosa che ci dia un po’ di serenità e ci strappi da quella routine che, giorno dopo giorno, ci cuce addosso una cappa di consuetudine che diventa sempre più pesante da portare.
Quando mi trovo in certi momenti, prendo dallo scaffale questo piccolo libro dalla copertina arancione che trovai su una bancarella in un lontano Autunno dello scorso millennio.
Oppure, forse, dovrei dire che fu lui a farsi trovare da me, perché con i libri non si sa mai…
Lo apro, ne scorro le prime pagine e, come sempre, arriva Richard Bach* col suo biplano Parks del 1929 a portarmi via.
Lo vedo che mi fa ampi cenni di salire a bordo, lui non è uno di molte parole e, del resto, non è che il rombo del motore favorisca tanto la conversazione.
Un breve rullaggio con l’erba che si trasforma in un’indistinta macchia verde, le ali che diventano sempre più leggere e poi, d’improvviso, la terra non c’è più.
Dietro all’argenteo disco dell’elica ci arrampichiamo nell’azzurro col motore che urla, altisonante, nella faticosa salita.
Livelliamo alla nostra quota, e il rumore si attenua talmente che posso sentire il fischio del vento tra i tiranti delle ali, mentre le nostre sciarpe variopinte svolazzano allegre.
Sotto di noi il patchwork dei campi coltivati viene interrotto dalla statale con i suoi modellini di automobili che contengono modellini di persone che viaggiano verso modellini di città in quello che sembra un plastico incredibilmente reale nel quale un modellino di treno elettrico, come quelli che mi portava la Befana, corre sui suoi piccoli binari.
Il mio amico muove la cloche, facendo inclinare l’aereo per seguire l’ansa del fiume che scorre pigro in questo tramonto che lo accende di un arancione tenue e delicato, mentre il vecchio motore fa il suo dovere, sputacchiando olio sul parabrezza e sui nostri occhialoni da aviatore.
Solo per il gusto di farlo, ci infiliamo dentro il grosso cumulonembo che torreggia alla nostra destra, uscendone ricoperti da una pioggia che il sole e il vento trasformano subito in un ricordo che si dissolve dietro di noi, oltre i piani del timone di coda.
Senza un programma di volo da seguire alla lettera e senza strumenti, se non una bussola e un vecchio manometro dell’olio, siamo padroni di questo cielo infinito al quale il nostro piccolo aereo appartiene e a cui brama sempre tornare.
Mentre il vecchio Dick regola i magneti e setta i trim per una leggera cabrata, mi ritrovo a pensare che, sicuramente, chi ha coniato il detto “La felicità non ha bisogno di parole” doveva trovarsi in volo su di un vecchio biplano, col cuore che ride e la sciarpa che garrisce al vento.

(*) ex pilota militare e autore di libri di successo, tra i quali il famosissimo “Il Gabbiano Jonathan Livingstone”.

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