Quel famosissimo supereroe che tutti conoscono come Superman fece la sua comparsa in Italia intorno al 1940 col nome di Ciclone per sfuggire alla censura fascista.
Nel dopoguerra, e fino a tutti gli anni ’60, venne chiamato Nembo Kid perché l’originale nome americano, Superman, sembrava che richiamasse troppo il Superuomo di Nietzsche che, all’epoca, si riteneva assai “compromesso” col nazismo.
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Dalla prima volta che mi capitò per caso tra le mani, quell’eroe in grado di volare e di compiere imprese mirabolanti grazie ai suoi incredibili poteri accese talmente la mia fantasia di bimbo da spingermi a chiedere a Maria Teresa Guerrini, che abitava nel mio palazzo alle Case Operaie e studiava per diventare maestra, di insegnarmi a leggere molto prima di andare in prima elementare.
Grazie alla sua bravura di insegnante ben presto smisi di approfittare della proverbiale pazienza della nonna Anita, che costringevo a leggermi i fumetti fino a quando non li avevo imparati a memoria, e fui in grado di gustarmi da solo le gesta del mio supereroe preferito.
Ricordo che questo giornalino, come chiamavamo a quel tempo i fumetti, faceva parte della collana Mondadori chiamata “Gli Albi del Falco” e al costo di cinquanta lire mi regalava ogni volta mirabolanti avventure sulla Terra e tra gli infiniti spazi siderali affrontando terribili nemici e minacce di proporzioni galattiche.
Quando il tempo lo permetteva mi sedevo sotto al grande albero e venivo trasportato in un mondo fantastico nel quale storpiavo e aggiustavo a modo mio tutti i nomi “americani” dei personaggi che lo popolavano: il giornale dove lavorava il mite e impacciato Clark Kent era il “Secolo XXI”, ma per me era il “Secolo ics ics uno” e il suo direttore, Perry White, era “Perri Vittche”, il cognome della “quasi fidanzata” di Clark, Lane, lo pronunciavo come il plurale della parola “lana” e così via… senza che mi sfiorasse mai il sospetto che quei nomi e quelle parole così strani andassero pronunciati in modo diverso.
D’altronde dicevo anche “Giames Bond” e “Gion Vaine”, quindi…
Insomma, non importava quanto fossero agguerriti e malvagi i nemici, perché il mio eroe col costume blu e lo svolazzante mantello rosso vinceva sempre, e io con lui.
Di Nembo Kid ero diventato un’autentica enciclopedia vivente e conoscevo a memoria la storia della fuga dal suo pianeta morente, tutti gli effetti dei vari tipi di kryptonite, l’unica sostanza che gli era letale, e le caratteristiche dei suoi più acerrimi nemici.
Il mercoledì mattina, giorno di uscita, non stavo nella pelle aspettando di udire il caratteristico fischio dell’indimenticabile Focacci* che con la sua bicicletta stracarica vendeva giornali e quotidiani in giro per tutto il paese.
«Renatooo, è uscito il Nembokidde?!» Urlavo appena lo vedevo in lontananza.
«Ce l’ho, Capitanino! Ce l’hooo!!!» Rispondeva lui, sorridendo con gioia sincera.
E quelle poche volte che non gli era arrivato, era dispiaciuto quasi quanto me e diceva subito di non preoccuparmi che l’indomani mattina me l’avrebbe portato di sicuro.
Ricordo ancora con grande affetto quest’uomo di una certa età, dal fisico talmente dinoccolato da sembrare anche lui un personaggio dei fumetti: una specie di via di mezzo tra Pippo e Tiramolla.
Con i suoi occhiali spessi come fondi di bottiglia e i calzoni fermati con le mollette per stendere i panni affinché non s’incastrassero nella catena della bici pedalava, ingobbito sul manubrio, per consegnare i giornali con qualsiasi tempo, sempre accompagnato da un perenne buonumore che rendeva impossibile non volergli bene.
Mi scuso, ma il pensiero della dolcezza che aveva nei confronti dei bimbi come me e il suo modo affettuoso di chiamarmi “Capitanino” mi hanno fatto spuntare una piccola lacrima… e con quella vi saluto “più veloce della luce!”.
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