Il presagio

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Martedì 17 Ottobre, ore 17 poco più.
La temperatura è gradevolissima e si sta così bene che me ne vado in giro senza meta solo per il puro piacere di guidare in questo dorato crepuscolo che sembra il lungo addio di un giorno che non vuole lasciarci.
Tutto sembra perfetto ma l’atmosfera è turbata da una sottile sensazione di presagio, come in quei quadri di Hopper in cui la famosa “immobilità dinamica” toglie serenità a scene altrimenti idilliache, dando l’impressione che ci sia qualcosa di indefinito che incombe.
Alzo gli occhi e mi accorgo che a ponente il cielo è già in parte conquistato dalle cupe avanguardie di quel maltempo atteso per l’indomani.
E’ una di quelle volte in cui la moto si guida col pensiero e quasi anticipa ogni mia intenzione, facendomi godere di ogni accelerazione, di ogni frenata e di ogni piega; forse sente che presto dovrà essere rimessa in garage e vuole lasciarmi un bel ricordo che mi accompagni fino alla prossima primavera.
Col motore che fa le fusa traccio curve che hanno più a che vedere con la passione che con le leggi della fisica; un po’ come un compasso che abbia una punta saldamente bloccata a centro curva e l’altra libera di seguire il cuore e le sue passioni.
Le previsioni del tempo per i prossimi giorni non lasciano scampo, dandomi la consapevolezza che quest’ottobre, soleggiato e mite come non mai, sta inesorabilmente cedendo il posto alla brutta stagione e per questo, arrivato al bivio per casa mia, tolgo quella freccia che avevo messo automaticamente e accelero in questa sera che si scolora nella notte.
Non so dove andare ma so che non devo fermarmi, illudendomi, così, di ritardare più che posso l’inesorabile arrivo della pioggia e del freddo.
La mia moto e io ci muoviamo, fluidi, col suo fascio di luce che sciabola nelle tenebre e, dopo aver danzato nell’ennesima serie di curve, scorgo in lontananza la tipica scena di un passaggio a livello chiuso.
Scalo una marcia… due… le rosse luci delle auto ferme in attesa mi vengono incontro brillando nella semioscurità.
Supero la fila dei veicoli e mi porto davanti a tutti, spengo la moto e aspetto nel silenzio. Non ho fretta stasera.
D’improvviso il treno irrompe col suo concerto di suoni e luci: una musica che rapisce la mia fantasia fin da quando ero piccolo e costringevo la nonna a portarmi ogni giorno alla stazione per vedere le grosse e sbuffanti locomotive nere come l’inferno.
«Chi saranno quelle persone i cui sguardi, attraverso il finestrino, per un fugace attimo incontrano il mio?
A casa avranno qualcuno che le aspetta o troveranno solo vuoto e tristezza?»
Cullati dall’ipnotico dondolio del treno, alcuni sono assorti nella lettura di un giornale spiegazzato e dalle notizie ormai stantie mentre altri, sicuramente pendolari che si conoscono bene, discutono animatamente mentre le rotaie scorrono veloci sotto di loro come ogni giorno.
Magari quelli che guardano fuori penseranno le stesse cose di me, o forse, per loro sono solo una macchia indistinta che scorre veloce nel buio… chi lo sa?
Un’improvvisa folata di vento e le luci dell’ultimo vagone si allontanano, il rumore si attenua e il treno svanisce nel buio portando con sé i suoi passeggeri e i loro sogni, progetti e illusioni.
Una lieve pressione sul pulsante di accensione e la moto, borbottando, riprende vita mentre, accompagnate dal solito scampanellio, le sbarre a strisce bianco-rosse si alzano esitanti.
Metto la prima, ruoto la manopola del gas e, mentre le auto iniziano a muoversi nei miei specchietti, sono già scomparso nella notte che mi avvolge nel suo abbraccio ancora tiepido mentre a occidente grossi nuvoloni sembrano fagocitare le stelle.

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