Seduto sul rosso patino tirato in secca, il ragazzo guardava i grossi cavalloni che si frangevano sulla riva.
Lo affascinava il punto di rottura, quell’attimo di precario equilibrio in cui l’onda si erge in tutta la propria maestosità ma che, fatalmente, prelude al suo repentino crollo in un roboante tripudio di schiuma.
In fondo, anche il detto “essere sulla cresta dell’onda” non dipinge l’immagine di un momento esaltante quanto effimero, perché destinato a non durare più dell’onda stessa che stiamo cavalcando?
Il cielo del colore del ferro aveva tenuto i bagnanti lontani dalla spiaggia, ma a lui non dispiaceva perché viveva quel pomeriggio dai toni spenti come una necessaria pausa nel chiasso della scintillante estate versiliese.
Ci sono momenti, pensava, che vanno vissuti in solitudine, centellinando ogni singolo granello di sabbia che fluisca nella grande clessidra del Tempo.
Il libeccio, dopo aver dato forma a quelle immense masse d’acqua verdastra, gli sfiorava la pelle e s’insinuava nel colletto rialzato della polo strappandogli qualche brivido sottile lungo la spina dorsale, ma lui stava bene così: col suo mare, i suoi pensieri e quel silenzio rotto soltanto dal frangersi delle onde e dalla conseguente risacca.
Mentre seguiva le evoluzioni dei gabbiani tra i nuvoloni dal colore d’inchiostro, la sua perfetta solitudine venne interrotta da una folata di vento che gli portò le voci di alcune sagome indistinte che passeggiavano sulla riva ingrandendosi lentamente a ogni passo.
Quando furono abbastanza vicine da esse si staccò una ragazza dai capelli corvini che lo guardò negli occhi per un lungo istante nel quale la terra parve smettere di girare e poi, con movimenti aggraziati, raccolse un pezzo di canna di bambù che il mare aveva portato da chissà dove e prese a tracciare alcuni segni sulla battigia.
Inclinando leggermente il capo, guardò il proprio lavoro con approvazione e poi, quasi sfiorando la sabbia con gli agili piedi, raggiunse gli altri che avevano cominciato a rimpicciolirsi verso il molo che si stagliava in lontananza.
Dopo una breve battaglia contro la propria curiosità, il cui esito era segnato in partenza, il ragazzo si avvicinò al punto in cui lei aveva tracciato i propri segni.
Chi conosce il mare sa quanto possa essere imprevedibile e, infatti, un’onda più grande delle altre si precipitò a cancellare tutto, ma non prima che i suoi occhi veloci avessero potuto leggere il nome di colei che per un attimo aveva sfiorato la sua vita.
E, poi, furono di nuovo il fruscio del vento, il fragore della schiuma e le alte grida dei gabbiani.
Come due comete le cui orbite si erano incrociate per poi scomparire, di nuovo e per sempre, negli infiniti spazi siderali i due ragazzi non si sarebbero visti mai più.
Eppure aleggiava nell’aria salmastra qualcosa di persistente che faticava a dissolversi…
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