Nelle torride estati degli anni sessanta ero ancora troppo piccolo per avere il permesso di andare a fare il bagno al fiume insieme ai ragazzi più grandi, allora la nonna Faustina mi portava spesso a visitare una sua amica che abitava nel casello ferroviario sotto le Case Operaie.
Quello del casellante era un lavoro di responsabilità perché da lui, nel tratto di sua competenza, dipendeva quella manutenzione delle rotaie, delle traversine e della massicciata che permetteva ai treni di viaggiare in sicurezza.
Il casello dove mi portava la nonna era curato e tenuto perfettamente in ordine; le persiane sembravano sempre tinte di fresco, c’erano delle aiole fiorite e dal forno, accanto all’edificio principale, uscivano spesso pagnotte fragranti e profumate.
Non esagero se dico che, anche se ero solo un bimbo, riuscivo ad avvertire un senso di operosa e felice dignità.
I nipoti dell’amica della nonna, più grandi di me, mi avevano preso talmente in simpatia che mi portavano a fare il bagno con loro, badando a quel bimbetto che, più che nuotare come si deve, annaspava schizzando acqua tutto intorno.
Di loro conservo il ricordo di due ragazzi magri, abbronzati e sorridenti nel loro costume da bagno rosso, pronti allo scherzo e rispettosi verso gli anziani.
In quegli anni, il Serchio aveva una portata d’acqua che adesso è difficile perfino immaginare e negli assolati pomeriggi estivi brillava di mille e mille scaglie d’argento mentre, da sponda a sponda, il placido rumore della sua corrente si mischiava a quello degli allegri schiamazzi di chi trovava refrigerio nelle sue fresche acque.
Verso le cinque del pomeriggio, obbedendo ai richiami delle nonne, uscivamo dall’acqua e ci arrampicavamo, scalzi, su per la ripida scarpata della ferrovia per avventarci come lupi su quelle gustosissime merende preparate con fette di pane condito con vino e zucchero o con olio e sale che ci aspettavano sul tavolo di legno della cucina.
Spesso ci mettevamo ad ascoltare il nonno dei due ragazzi che, tornato dall’America, favoleggiava di treni argentati talmente veloci che, sebbene lunghissimi, passavano e sparivano in un attimo come un colpo di vento.
«Boy, un facevi a tempo a vedelli rivà da lontano, ch’erin già spariti!»
Diceva gesticolando verso i binari, e noi seguivamo il movimento delle sue mani con gli occhi spalancati, come se vedessimo davvero quei velocissimi treni che ci accendevano la fantasia.
Le estati passavano pigre e sembravano non finire mai in quel mondo che appariva perfetto e bastante a se stesso, col tempo che veniva scandito solo dalle albe, dai tramonti e dal transito dei treni dei quali contavamo i vagoni nella perpetua speranza che quello che stava passando fosse più lungo dei precedenti.
I treni merci, con i vari tipi di vagoni, ognuno destinato a uno scopo diverso, mi piacevano più di quelli passeggeri che erano tutti uguali e monotoni.
La Littorina, invece, mi lasciava quasi indifferente: troppo silenziosa e del tutto priva di quelle esplosioni di vapore che mi davano il senso dell’enorme potenza sprigionata dagli stantuffi.
A volte, lungo la ferrovia, trovavamo una monetina da cinque lire, quelle col delfino, e la mettevamo sulle rotaie prima che passasse la sbuffante locomotiva per poi riprenderla sotto forma di una grossa e sottile medaglia da appendere orgogliosamente al collo.
Adesso, che ho iniziato a disegnare quel ramo discendente dell’umana parabola che chiamano “terza età”, sento sempre più spesso l’agrodolce nostalgia di quelle estati così perfette, di quella serenità così assoluta e priva di ombre.
Ogni volta che passo sul ponte delle Case Operaie il mio sguardo cerca istintivamente la sagoma di quel casello che è stato testimone di tanta felicità, ma ne ricava solo la vista di pochi ruderi fagocitati dagli sterpi.
E se provo con tutte le mie forze a ricordare i nomi di quei due ragazzi, ogni volta che sono sul punto di afferrarli mi sfuggono tra le dita come quei sogni che s’infrangono sull’alba disperdendosi in mille rivoli destinati all’oblio.
Il casello
- 1 di Daniele Capecchi
Leonello Diversi
16 Luglio 2023 alle 19:47
Orlando, così si chiamava il casellante, del casello con il grande numero bianco 33 e poi 055 , che per me e per tutti era un gran mistero.
In realtà la distanza da lucca. Orlando era un uomo tutto d’un pezzo.
Aveva una gamba rigida. Effetto della guerra. E ci ammoniva se si so stava o si camminava sui binari.etc etc.
Che tempi.