Il rosario

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Ultimamente mi è capitato di sentire, e non per la prima volta, alcune signore di una certa età che rimpiangevano la messa in latino. Alla mia osservazione: «Ma se non capivate quel che diceva il prete e neanche quel che dicevate voi!» hanno risposto con aria di commiserazione: «Ma che ne vuoi sapere te di com’era bello?».

Invece qualcosa ne so e rovistando nel cassetto della memoria è saltato fuori questo ricordo di molti anni fa.
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Con l’arrivo di maggio, mese dedicato alla Madonna, iniziavano quelle funzioni religiose serali alle quali noi ragazzi partecipavamo volentieri perché, finito il lungo inverno che ci costringeva in casa, erano il passaporto per iniziare a uscire dopo cena nel lungo crepuscolo primaverile.
Sotto lo sguardo vigile delle nonne, che pur chiacchierando tra loro non perdevano una nostra mossa, partivamo tutti insieme dalle Case Operaie alla volta della chiesina dell’Asilo Pascoli che a quel tempo era un piccolo scrigno di bellezza.
Appena oltrepassato il ponte sul Rio Torbo venivamo accolti dall’intenso profumo che scaturiva dai glicini che formavano una rigogliosa cascata viola che si riversava giù dall’alto muro di cinta, sensazione che veniva rinnovata da quelli della pergola del bar alimentari “il Botteghino” sotto la quale avvenivano epiche sfide a biliardino e ping pong.
Oltrepassato il cancello del parco, ricco di aiuole curatissime e fiorite, ci trovavamo davanti alla bianca Madonnina che, dalla sua grotta nella quale una cascatella d’acqua si rinnovava continuamente, sembrava chiamarci a recitare un’Ave Maria; invito raccolto solo dalle ragazze perché noi maschi non resistevamo alla voglia di scatenarci in un posto finalmente privo dai pericoli delle automobili.
Al suono del piccolo campanile sul tetto della chiesina di Santa Margherita prendevamo posto nelle panche perché la funzione stava per cominciare.
Siccome il rito veniva celebrato in latino, insieme agli altri bimbi pregavo ripetendo “a pappagallo” quello che dicevano la nonna e le sue amiche che, dal canto loro, si sforzavano di pronunciare parole che assomigliassero il più possibile a quelle dette dal prete.
Si cominciava recitando l’Ave Maria col suo “benedicta tu in mulieribus” che veniva trasformato dalla nonna Faustina in “benedite il mi guglielmus”, dove guglielmus era mio zio Guglielmo che, così, tutte le sere finiva per beneficiare di una benedizione fuori programma.
E poi il Pater, le Litanie e il Tantum Ergo… anche questi riempiti di termini ingenuamente storpiati che ognuno diceva a modo suo… e a questo proposito riporto un esempio che, anche se è passato tanto tempo, mi fa ridere ancora:
Quando, nelle Litanie della Madonna, il prete diceva “Consolatrix afflictorum” (consolatrice degli afflitti) noi si capiva “consolate San Frittoru” rimanendo sconcertati perché un santo con quel nome non l’avevamo mai sentito.
Andammo anche a vedere sul calendario di Frate Indovino ma di San Frittoru non c’era traccia…
Un mistero che, dopo averne discusso per un bel po’, venne risolto da uno dei ragazzi più grandi che disse: «Siccome il prete dice sempre di consolarlo, dev’esse così una lagna che, dai e dai, quell’altri Santi si son rotti le scatole e un ce l’han più voluto!», spiegazione che ci convinse e accettammo senza discutere.
Era l’apoteosi di quella Santa Ignoranza per secoli promossa dalla Chiesa che voleva i fedeli come un gregge che doveva essere guidato dal prete-pastore che era l’unico a conoscere riti e formule per pregare in una lingua che ammantava tutto di mistero, ma… quanta umiltà e desiderio di partecipare a riti che i fedeli comprendevano poco ma dei quali avvertivano istintivamente la grandezza e la magia!
Ricordo che quando, dopo lunghi minuti passati dando le spalle ai fedeli e bisbigliando formule che suonavano incomprensibili e arcane, il prete si girava verso la gente e, aprendo le braccia in un gesto ieratico, declamava:«OREMUS!», catalizzava l’attenzione di tutti e sembrava davvero il tramite tra i fedeli e l’Altissimo!
Sarà che questo mondo ci lascia sempre meno tempo per la preghiera e la meditazione ma, a volte, affiora un po’ di rimpianto per quelle atmosfere di tenui fiammelle e di algidi marmi, per gli odori di cera e incenso e per quelle penombre che invitavano al raccoglimento e confortavano dagli affanni.
E quanto mi piacerebbe ascoltare di nuovo quelle pie donnine coi loro “sfondoni” così pieni di devozione da strappare sorrisi fatti di quella tenerezza che si prova solo per le cose belle e innocenti che si sono irrimediabilmente perdute.

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