La Cinquecento

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La mattinata, a scuola, era trascorsa velocemente come al solito ma il pomeriggio non passava mai, con quella sveglia che sembrava rallentare il suo ticchettio per prendersi gioco dei miei sguardi sempre più impazienti.
Ma, poi, finalmente la sirena della S.M.I. ha suonato le cinque del pomeriggio e adesso mi trovo qui, davanti al cancello della fabbrica, nel mio cappottino grigio della festa ad aspettare che esca il babbo.
Quando infine emerge dalla fiumana blu che riempie la strada non l’ho mai visto così sorridente ed elettrizzato e io, dal canto mio, non sto più nella pelle dall’eccitazione.
Il viaggio in autobus verso Barga sembra non finire mai ma, alla fine, scendiamo al Giardino mentre il freddo della sera s’insinua nelle mie narici dandomi la classica impressione di “aria fina” che s’intrufola nei polmoni.
Attraversiamo la strada e ci troviamo davanti a un distributore di benzina e a una grande vetrata illuminata sovrastata da un’enorme insegna scintillante: è la FIAT!
Per mano al babbo e con la bocca socchiusa dallo stupore entro nel grande capannone pieno di automobili nuove di zecca che brillano sotto la chiara luce dei neon che pendono dall’alto soffitto.
In un’atmosfera in cui si mischiano odori di gomma, benzina e lubrificante, le Seicento, le Millecento e anche qualche Millecinque dalla caratteristica coda alta fanno bella mostra di sé riempiendomi gli occhi, mentre tutt’intorno è un viavai di indaffarati meccanici con la tuta dello stesso colore, come fosse una divisa portata con orgoglio.
In un angolo, quasi a snobbare le altre macchine, se ne sta da sola un’altera 2300 S dal caratteristico muso lungo e aggressivo.
Fatti due passi, ci viene incontro un signore alto, elegante e dal sorriso contagioso sotto un paio di baffetti ben curati.

«È il Sergio Lunatici!» mi bisbiglia il babbo, e dal suo tono traspare un misto di ammirazione e rispetto.
«Capecchi! Hai visto che è arrivata anche la tua?..» dice lui con un sorriso sornione e una voce che sa di tante sigarette.
Giriamo un angolo e… eccola! La nostra 500 antracite dagli interni rossi sembra un cucciolo che vuole tanto essere adottato.
Firmati alcuni fogli che non capisco e dopo una vigorosa stretta di mano, il babbo sale a bordo e mi apre lo sportello: finalmente anche noi abbiamo l’automobile!
Usciamo sgassando generosamente e ci fermiamo proprio davanti al distributore dal quale esce quello che sembra il prototipo del benzinaio sorridente della pubblicità.

«Faustino, il pieno!» esclama il babbo con voce piena d’orgoglio.
«Alla fine t’è arrivata, eh?..» dice sorridendo l’omino, brandendo la pompa come fosse un nero e ribelle serpente boa da addomesticare.
Pagata la somma di duemila lire, partiamo contenti alla volta di casa, ma già a Loppia sperimento le prime gioie del mal d’auto e mi viene da vomitare.
«Si comincia bene!..» fa il babbo, fermandosi e alzando gli occhi al cielo ma, fortunatamente, è solo un falso allarme e possiamo ripartire.

Finalmente arriviamo a casa suonando festosamente il clacson con la mamma che sorride felice sul marciapiede e i vicini che applaudono affacciati alle finestre.
Pochi giorni dopo il babbo aveva già provveduto a personalizzare la cinquecento con una leva del cambio in legno più corta e sportiva, con delle trombe dalla voce squillante e con una marmitta dotata di due tromboncini che rendeva il rumore dello scarico più cupo e profondo.
Ricordo, però, che non cedette mai alla richiesta della mamma di mettere accanto al cruscotto uno di quei piccoli portafoto magnetici con la scritta “Non Correre” che andavano tanto di moda perché lui, che per lavoro guidava macchine ben più potenti, diceva «Un ave’ paura che con questa si va piano per forza!..».
Seguendo una simpatica usanza di quei tempi, decidemmo di battezzare la cinquecento con un nome di donna e fu così che, dopo una breve riunione di famiglia, la nostra macchinina antracite diventò “La Peppa”!
Per molti anni, la nostra Peppa ci portò fedelmente in giro per l’Italia e ancora adesso, a volte, mi capita di ricordarla con un velo di nostalgia perché fu grazie a lei che la famiglia Capecchi di Fornaci iniziò a vedere il mondo.

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