Sant’Antonio

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Era una festa di S. Antonio di tanto tempo fa e io ero ancora un bimbetto che abitava a Fornaci, sopra il distributore di benzina della Supercortemaggiore (poi AGIP e adesso ENI) che, come tutti sanno, si trova vicino all’incrocio delle “due strade”.

Siccome la mia cameretta si affacciava proprio sulla strada che ospitava la fiera, ero stato svegliato di buon’ora dal rumore insistente di alcune pale che grattavano l’asfalto.
Nei giorni precedenti altra neve si era aggiunta a quella già esistente e ora, per piazzare la loro bancarella, gli ambulanti dovevano spalarne dei mucchi che avrebbero resistito fino a primavera inoltrata.
La sera prima ero andato a letto pieno di aspettative perché l’indomani ci sarebbe stata la fiera e adesso stavo col naso schiacciato al vetro della finestra di cucina a guardare il recinto dei maialini che si trovava dove ora ci sono le prime case di via Italia.
Alcuni uomini gesticolavano per trattare sul prezzo di quelle bestioline rosa che avrebbero allevato fino a Natale per poi macellarle ricavandone la carne, ma di questo io non volevo sapere nulla.
Il pensiero che sarebbe venuto lo zio Guglielmo, per il quale stravedevo, e mi avrebbe portato alla fiera non mi faceva stare nella pelle e continuavo a guardare quella sveglia che, arrivata dall’America in uno dei pacchi dono mandati dai parenti di Chicago nell’immediato dopoguerra, continuava a ticchettare indifferente alla mia frenesia.
D’improvviso si spalancò la porta e, in una folata di vento mista a nevischio, entrò un intirizzito zio Guglielmo!
«Sei pronto? Copriti bene che oggi passan bassi!» disse sfregandosi energicamente le mani.
In un attimo la nonna Anita mi aveva già vestito: camicia a quadretti di peloncino sopra la maglia di lana a maniche lunghe, maglione pesante fatto ai ferri, calzoni corti (ma di velluto), calzettoni di lana fino al ginocchio, giacchettina di panno con le toppe ai gomiti, sciarpa, guanti, berretto di lana dell’Inter col pompon e, naturalmente, le scarpe della festa che erano quelle belle della marca Brunate comprate dal Ricci.
A quei tempi non c’erano i leggeri piumini di oggi e i bimbi venivano coperti come meglio si poteva, finendo per farli sembrare dei piccoli palombari.
Lo zio mi guardò con occhio critico e poi scosse il capo:
«Qui ci vuole qualcos’altro… ma lo so io!»
Raggiunto un mucchio di materiale edile, prese due mezzi mattoni e me li infilò nelle tasche della giacchetta:
«Sennò, secco come sei, il vento ti porta via e la tu mamma chi la sente?»
Pilotato per mano dallo zio Guglielmo, mi avventurai in una realtà fatta di risate, pacche sulle spalle, uccelli colorati che mandavano richiami e dolciastro odore di zucchero filato e croccante che saturava l’aria.
Passata la macelleria del Tonino e della Brada cominciarono a risuonare le grida di alcune ragazze bersagliate dalle colorate palline di stoffa piene di segatura che, dopo aver colpito il bersaglio, grazie a un elastico tornavano nella mano di sghignazzanti bulletti.
Per la verità quei mattoni che col loro peso mi deformavano le tasche mi davano un certo fastidio ma se lo zio diceva che ci volevano…
Stalattiti di ghiaccio pendevano dai tetti delle case e ogni ambulante, battendo i piedi dal freddo, decantava le meraviglie della propria merce con accenti strani e diversi mescolati da un vento che sembrava voler strappare i tendoni delle bancarelle.
In piazza della chiesa c’era un tipo su una specie di piedistallo che, scalmanandosi come un ossesso, gracchiava da un altoparlante:«Queshto, siorre e siorri, è il pacco del lavoratorre! Scié trovo una persciona che mi dà mile lirre, io ce lo do e sci metto sciopra queshta tovalia di Fiandra col sciet completto di tovalioli, e un scerviscio di piatti da doddici che qui non l’avete mai vishto!!!»
Era un vero incantatore e la gente sembrava pendere dalle sue labbra; è tornato per tanti anni e non ho mai capito come facesse a dare via tanta roba “regalata” ricavandone un guadagno.
Credo che abbia raggiunto il top quando un tardo pomeriggio, dopo aver decantato a lungo le qualità di una bella penna stilografica, concluse dicendo:
«E non ve la do per ventimila lirre, non ve la do per diecci e nemmeno per cinque! Non ve la do per nulla, perché è mia e me la tengo io! Buonasèira…» e se ne andò lasciando tutti con un palmo di naso.
Intanto, tra bancarelle, scherzi e saluti si era fatto mezzogiorno e lo zio mi aveva riaccompagnato a casa.
Eravamo lì che si mangiava quando un tonfo proveniente dall’ingresso ci fece trasalire. Sotto all’attaccapanni, in corrispondenza della mia giacchettina, un pezzo di mattone stava sul pavimento.
«E quello che ci fa lì?» fece la mamma. Non feci a tempo a dire nulla che lei aveva già preso in mano la giacchetta con la tasca sfondata e aveva levato il restante mezzo mattone dall’altra tasca.
«Ma che ti metti a fare?! Ora c’è da ricucirla. Ma che t’è saltato in mente?!»
Io, farfugliando, spiegai che era stata un’idea dello zio Guglielmo, al che «L’ho sempre detto che è matto come una fune!» borbottò il babbo scuotendo il capo.
«E’ sempre il solito! Ah, ma stavolta quando lo vedo mi sente davvero!» disse la mamma, gesticolando battagliera.
Defilata, la nonna Anita ridacchiava divertita con gli occhi che brillavano.

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