Penso che tutti abbiamo una strada che ci regala emozioni legate a ricordi di vita vissuta e a sensazioni che ci hanno segnato per sempre. Io, magari, a causa della mia passione per la moto ce n’ho qualcuna in più, sparsa per mezza Europa ma, qui, voglio parlare di una strada che porto nel cuore in modo speciale e che ogni primavera e ogni autunno non posso fare a meno di ripercorrere.
Non si disegna tra le morbide colline della Val d’Orcia o tra gli aguzzi picchi dolomitici e nemmeno accompagna il Reno nel suo incedere sonnolento punteggiato da romantiche e turrite cittadine medievali.
Questa è una breve strada contornata di siepi e alberi che porta al cimitero di Barga e viene chiamata “scesa di S.Antonio” e anche “La Vietta”.
Si deve fare rigorosamente a piedi e oggi, ancora una volta, inizio a percorrerla come quando lo facevo insieme alla mia nonna Anita nelle domeniche pomeriggio di tanti anni fa.
Un passo dietro l’altro, circondato dai caldi toni dell’autunno, vecchi e cari ricordi tornano a orbitare intorno al cuore, perché è solo col cuore che si ripensa a certi momenti.
Mi rivedo con i calzoni corti e quelle gambette sgrugnate e dai calzettoni sempre giù che non riuscivano a star ferme, inseguito dai richiami della nonna che mi voleva vicino a sé, forse perché ci vedeva poco e aveva sempre paura di perdermi.
Cosa sarà quella smania di muoversi, correre e saltare che prende, prepotente, i bimbi di quell’età? Di me dicevano che avessi l‘argento vivo addosso e questa espressione mi faceva ridere perché, per quanto mi sforzassi di guardare, su di me non riuscivo a vedere tracce di sostanze strane…
Tendo l’orecchio e la brezza che accarezza piano le foglie mi riporta le tranquille chiacchiere che la nonna intesseva con la Margherita, la Miranda, la Marietta e la Ida, le sue grandi amiche di sempre, in un passeggiare placido e ombreggiato.
Qui c’è ancora quella pietra sconnessa, lì una coppia di scalini che mi divertivo a saltare con la rincorsa e proprio sotto quell’albero detti un calcio talmente maldestro che il pallone finì su un ramo e non ci fu più verso di prenderlo.
E come dimenticarsi che proprio qui, correndo a perdifiato come al solito, scivolai su una pietra lucidata dal tempo e caddi rovinosamente, sbucciandomi un ginocchio?
Per tamponare il sangue che usciva mi dovetti arrampicare proprio su questa fontana, che ancora stilla acqua fresca, e improvvisare col fazzoletto una benda bagnata.
Altro che disinfettanti e polverine varie! Dopo qualche giorno le ferite facevano una crosta che presto cadeva, aggiungendo un’altra medaglia al valore sui nostri arti di monelli degli anni sessanta che nessun batterio poteva neanche sognarsi di infettare!
Seguendo il filo dei ricordi sono ormai giunto alla fine di questa mia strada del cuore, mi volto indietro e il mio sguardo l’accarezza fino a quella curva che, dolcemente, sale verso sinistra scomparendo nel bosco e accenno un saluto.
Protetta dalla sua coperta di foglie e morbido muschio passerà l’inverno e a primavera la ritroverò sgargiante di verde. Allora, ancora una volta, una piccola lacrima si affaccerà all’angolo del mio occhio ma sarà solo un istante perché, come diceva la nonna Anita, «Gli omini un piangono!»
La strada del cuore
- 1 di Daniele Capecchi
Morena Bertoni
14 Novembre 2022 alle 20:58
Emozioni che il tempo non ha cancellato…Bravo Daniele nel descriverle