Ottobre

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Rivorrei un Ottobre in cui i bimbi di prima elementare, emozionati nel loro grembiulino, venivano chiamati “remigini” e i primi compiti a casa che nessuno faceva perché il sole era ancora quello delle vacanze e ci reclamava fuori a giocare.

Le nuvole che facevano a rimpiattino nel cielo più terso dell’anno, mentre l’autunno iniziava a dipingere il mondo coi suoi toni caldi e dorati, e le mie camicie a quadri di caldo peloncino.
Quell’ultima uva rubata dai filari che mi appiccicava le dita e mi allegava la gola, ma che era buona proprio perché rubata, e il profumo dolciastro del mosto che usciva dalle cantine a solleticarmi le narici.
Le castagne raccolte in Val di Lago che diventavano saporite mondine su quella fiamma improvvisata che scoppiettava allegramente tra quattro mattoni e il primo fumo dei camini che si arrampicava lento nell’imbrunire, spandendo nell’aria il suo profumo di legna buona.
Rivorrei le rondini che si radunavano sui fili della luce per salutarci prima di volare in Africa e i primi brividi delle brumose mattine in bicicletta.
E vorrei rivedere la strada piena di gente che ritornava alla propria casa dopo il lavoro ma, soprattutto, vorrei sentire di nuovo la gente cantare o fischiettare perché, ormai, non lo fa più nessuno e questo silenzio opprime.

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