Duse Lemetti, una donna nel proprio tempo

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La Duse Lemetti, che vive a Ponte di Campia, è una vera e propria istituzione. Ultimamente non la si vede in giro, ma c’è ed è una di quelle donne che hanno scritto pagine importanti della storia di questa valle, sia insegnando a scuola che nella vita di tutti i giorni. E di cui parlare e raccontare non è mai abbastanza.

Ha fatto bene l’insegnante Primetta Suffredini a dedicarle il racconto che proponiamo integralmente di seguito e che le è valso non a caso il primo premio al Premio “Essere Donna Oggi”organizzato dal Comune di Gallicano, Associazione L’Aringo e Tralerighe libri  come racconto inedito. E’ stato pubblicato nell’antologia che Tra Le righe Libri ha dedicato all’edizione 2022 della manifestazione ed è un gran bel racconto che vi invitiamo a leggere.

“L’anno scorso con alcuni compagni di classe delle Magistrali siamo andati a trovare Duse – dice Primetta –; mentre raccontava alcuni episodi della sua vita ho avuto l’idea di scrivere un piccolo racconto che li contenesse. Con questo ho partecipato al Concorso “Essere donna oggi” e… ho vinto il 1° premio! La cosa mi ha reso molto felice, soprattutto perché è stato un modo per esprimere il mio riconoscimento alla persona speciale che è stata per me la cara Duse”.

Una donna nel proprio tempo

“La vita senza musica, sarebbe un errore”  Nietzsche

– Quando mi alzo canto! E’ un mio modo di fare un bel respiro appena sveglia, e sono anche brava! – aggiunge con tono ironico – Avrei potuto fare la cantante, ma ho preso un’altra strada. L’occasione c’era stata, per un’audizione, era già tutto organizzato, mi avrebbe accompagnato un caro amico di famiglia, con la sua macchina, era privilegio di pochi, possedere una vettura a quel tempo, per una donna poi, impensabile.  Ma la vita ci manda dei segnali e ci lascia il compito di saperli leggere; poco prima della partenza un gratificante e prezioso elogio  al mio operato da maestra,  da parte del direttore, mi aveva regalato una gioia debordante, da condividere il prima possibile con mia mamma, insieme alla notizia che avrei rinunciato all’audizione.

Mia madre avrebbe voluto che continuassi gli studi, dopo il diploma magistrale; l’avrei accontentata volentieri iscrivendomi all’accademia di Belle Arti, mi accompagnò a Firenze per iscrivermi, ma trovammo tutto chiuso, la guerra non prevede l’arte.

 

La musica è ed è stata una mia dote, uno spazio libero, che generava bellezza dentro di me e che percepivo come un regalo da offrire anche agli altri. Ed è stato il canto, sostenuto e fortificato dalla mia fisarmonica, che mi ha dato la possibilità di sentirmi viva e presente in un periodo non facile della vita. La vita – fa una pausa, mi guarda e per un istante parla con gli occhi – se ci penso oggi, che sto imparando un nuovo alfabeto, quello lento e pesante della vecchiaia, la parola che sento più presente è solitudine, sono stata quasi sempre sola, sola perché è da sola che ho fatto la funambula,  in equilibrio su un filo di ragnatela. Ma l’ho fatto con forza e caparbietà, mi ripetevo che ce la dovevo fare; e l’ombrello con cui calibrare il peso ad ogni passo sono state la mia fisarmonica e la mia voce. Le mani rese deboli e incerte dall’artrite non mi permettono di tirarla fuori dalla sua custodia, ma come mi piacerebbe farlo, e suonare ancora. Sola – ripete più di una volta, quasi a chiedere conferma a sé stessa se era la parola giusta – Sì, sola.

E’ così che quel filo  si dispiega e tesse ricordi ed ogni frammento di memoria si trasforma in una goccia di rugiada che lo illumina, come le ragnatele all’alba, accarezzate dal primo raggio di sole.

Ogni goccia di rugiada è un ricordo che riluce qua e là dove i fili si intrecciano e gli impediscono di scivolare via. In certi punti la tessitura è lacerata, in altri punti un seme portato dal vento ha sovrapposto i fili, e non c’è più la perfezione del disegno pensato in origine. Così i suoi ricordi, affiorano qua è la, si mescolano, non rispettano la cronologia del tempo, ma il tempo a volte non esiste.

 

– La guerra era finita da poco, la gioia per il ritorno alla pace, nella mia famiglia era inficiata dalle conseguenze di quelle che erano state le scelte politiche di mio padre, uomo dell’affannato ‘novecento. Non era facile tirare avanti, negli occhi di mia madre leggevo la fatica legata ai nodi stretti della preoccupazione.  Ed ecco che il mio talento, talvolta timidamente nascosto, germogliò e portò frutti, sollevandomi in parte dalla sensazione di impotenza che provavo, quando mi sentivo incapace di curare lo sguardo triste di mia madre.

Erano tempi di fatica, di lutti da onorare, di briciole e macerie, ma erano anche tempi di voglia di allegria e di bellezza, di balli e di canzoni, di mani che battono al ritmo della musica  e di abbracci rubati tra un valzer ed una mazurca. Così, trovai il modo per trasformare una rinuncia in una occasione: la mia voce cominciò a fiorire in canti e ballate, accompagnata dalla mia fisarmonica, nei borghi e nei paesi vicini, io portavo un po’ di bellezza e di allegria. Coloro che avevano organizzato la serata, mi accoglievano festosi, mostrandomi la sedia che mi avevano riservato, posizionata nell’angolo migliore di un’aia, di una stalla o del salotto buono, che per l’occasione si trasformavano in sala da ballo. A ricordarmi se la serata di balli e canti aveva preso vita in una stalla, era la polvere nera che il mattino seguente intasava il naso, e la tosse provocata da quanta ne avevo inghiottita, le tavole mosse dai saltelli delle mazurche e dall’irrinunciabile quadriglia, e le travi del soffitto, scrollate dal ritmo di mani battenti, diffondevano nell’aria pulviscolo e spesso frammenti di fieno. Non era raro che facesse parte dell’accoglienza anche un fugace pasto, spesso due uova affrittellate e una fetta di pane, per l’occasione tagliata con generosità di spessore. Iniziavo spesso con una mazurca, da lì a poco il gruppo di persone presenti si animava, c’erano sempre diverse coppie che ballavano, alcune ininterrottamente, altre alternavano una danza alle chiacchiere.  Il vino rosso nostrale, veniva mesciuto in abbondanza, e le note aspre che lo caratterizzavano dopo alcuni bicchieri rendevano più aspri anche i toni degli immancabili battibecchi che nascevano nel confrontare le doti delle proprie vacche o per l’appunto dei propri vitigni. In una paio di occasioni, l’animosità delle discussioni risvegliate dall’abbondanza del vino trangugiato, si trasformarono in zuffe, ma nessuno o quasi ci faceva caso, la maggior parte dei convenuti voleva ballare, quindi io dovevo dare aria alla fisarmonica e continuare a cantare tenendo i piedi alzati da terra, per non rischiare di essere calpestata da chi era coinvolto nella baruffa.

Nei modi di fare delle donne era facile leggere il carattere, non mancava mai la “faccendiera”, che trasformava in danza il muoversi in continuazione per controllare che tutto fosse a posto, che non mancasse niente, che quasi piroettava svelta per riempire con nuova acqua fresca, la brocca esaurita in fretta. Di solito era la chiassosa e scatenata quadriglia che dava il via libera al buffet, ciò che veniva offerto era ben lontano dall’abbondanza e dalla ricercatezza, i savoiardi, se c’erano, era quanto di più dolce e buono potessimo sperare di assaggiare, un bicchierino di vermouth o di marsala ammorbidivano la gola e gli sguardi.  Le donne più anziane non si muovevano dalle loro seggioline, osservavano con aria un po’ sommessa, tra un misto di nostalgia e rassegnazione, avevano da poco vissuto le brutture della guerra, ora nell’aria si respirava profumo di rinascita ma per loro sarebbe rimasto un profumo che le avrebbe accompagnate alla meta ultima del ciclo della vita. Fu in una di queste serate che ebbi l’occasione di conoscere Maria, una giovanissima partigiana, piccola di corporatura ma infinitamente grande di generosità e coraggio.

 

La guerra. Abbiamo vissuto a Lucca, in via Busdraghi n° 12, c’erano sette rampe di scale da fare per arrivare alla piccola mansarda dove alloggiavamo. Bicicletta e fisarmonica erano il fardello che dovevo trascinare ogni volta, ma nonostante fossi di corporatura esile, non mi è mai mancata la forza per portare  in salvo ciò che rappresentava il mio “ombrello” per rimanere in equilibrio. La mamma era già malata, ma si faceva coraggio e quando poteva mi accompagnava, soffriva vedendomi strimpellare e cantare, ma sapeva che era vitale quello che facevo. Si preoccupava, ero una giovane ragazza, sola. Di quel tempo ricordo una serata al ristorante “Perduca”, gli ufficiali americani avevano organizzato tutto, io servivo per fornire musica e altre signorine per …ballare. Quella sera, quando spinsi nell’ultimo sbuffo la mia fisarmonica, prima di chiuderla e riporla nella sua custodia, il gesto di un ufficiale, che sfregando il pollice sul medio e sull’indice mi rivolse uno sguardo sprezzante, mi ferì profondamente. Mi parve per un attimo che l’ombrello si fosse chiuso, e mantenere l’equilibrio fosse diventato impossibile. La presenza di mia madre mi scosse e fui capace di ritrovare il mio sguardo deciso, il sottufficiale che mi aveva contattato per la serata mi consegnò i pochi spiccioli che avevamo pattuito e ci accompagnò alla porta. Quella sera i gradini sembravano diventati più alti e non finivano mai, fu difficile prendere sonno su quel materasso che non aveva il suono familiare delle sfoglie di granturco che scricchiolavano ad ogni piccolo movimento. Quella notte la musica mi fu nemica e a danzare furono gli spettri della paura che volteggiava insieme alla rabbia, dello scoraggiamento che si muoveva al ritmo delle pesanti rinunce. Bastò poco, al mattino, per ritrovare il coraggio, la vista della mamma che con tenerezza accarezzava la mia fisarmonica, quasi fosse una bimba in fasce e l’inaspettata visita di una vicina, che ci regalò cinque fresche zucchine, raccolte da poco dall’orto.

Ma la finestra della mansarda nell’appartamento di Lucca, si apre anche su uno dei ricordi più belli: l’alba del 25 aprile, l’armistizio: la musica questa volta veniva da fuori, cori di campane e garriti festosi riempivano l’aria, una gioia profonda, sembrava che ogni essere vivente, a suo modo,  volesse esprimere la bellezza di quel momento, anche le foglie degli alberi sembravano più verdi e l’aria profumava di fresco.

Il ritorno a casa fu un misto di sensazioni, di sicuro la gioia di riprendere il proprio posto, ma anche l’incertezza, il timore di tutto quello che la guerra aveva reso diverso e quindi nuovo.

 

La mia certezza era ancora la mia voce, la mia forza, la mia fisarmonica; in tanti mi conoscevano ormai, la mamma a volte alzava gli occhi al cielo, quando sentiva bussare alla porta, sapeva che probabilmente avrebbe dovuto fare accomodare il signore venuto dal paese vicino per concordare una serata che avrei animato. Tante volte le leggevo nel viso l’imbarazzo per non avere niente da offrire all’ospite, lo sciroppo di mirtilli veniva centellinato ed allungato con abbondante acqua, tanto da diventare nel bicchiere di un colore rosato. Sperava sempre che non dovessi andare troppo lontano, non sapermi a casa fino alle due, a volte le tre di notte, era un’angoscia che la macerava. Si raccomandava che non togliessi mai il rosario che portavo al collo, mi benediceva con gli occhi e io sentivo addosso la sua fede, umile e rassegnata, che si univa alla mia, solida ma ribelle. Durante le serate, mentre cantavo e suonavo, beneficiavo di uno stato di benessere profondo, che cancellava tutte le preoccupazioni e le paure, il tempo era quello della musica, non quello dei minuti e delle ore che passavano in fretta.

C’era sempre chi a tratti si univa al canto, quasi gustando le parole dei ritornelli, e gli occhi gli si illuminavano di una gioia infantile, traboccante di emozione fresca e pulita, come i panni stesi al sole e raccolti prima del tramonto. Io godevo del mio stesso canto, mi sentivo libera e forte, padrona di quel momento, quasi magica: ero io che davo vita a quella bellezza, ero io che annaffiavo delicatamente l’aria con la mia musica e il mio canto, e facevo sbocciare risa, abbracci, fantasie, sogni, leggerezza, … amori. E a tutta questa alchimia di sensazioni che mi gratificavano, si aggiungeva… il compenso! Potevo tornare a casa, da mia mamma che mi aspettava con il lumicino acceso, e far tintinnare dentro il barattolo di latta, le monete che mi guadagnavo. Che soddisfazione quando una sera, un cortese signore, mi offrì doppio compenso in cambio di un bis di “Ciribiribin”; quella sera tornando a casa in bicicletta con la fisarmonica sulle spalle, sembrava avessi le ali, e ancora di più il suono prolungato delle monetine che cadevano nel barattolo, sembrava un inno alla gioia. La mamma non diceva niente se non che era finalmente tranquilla nel sapermi a casa, ma nel suo sguardo c’era un velato messaggio di approvazione, accompagnato da un sommesso movimento del mento, che io interpretavo come un incitamento, quasi mi dicesse: – Brava! Continua così! E che paura ……quella sera che nella discesa ripida di Bolognana, un’incauta frenata, spostò tutto il peso della fisarmonica in avanti, e nessuna preghiera pronunciata in una frazione di secondo, impedì la mia caduta rovinosa a terra. Un disastro, la fisarmonica era salva, ma non il mio naso, gonfio e tumefatto, gli organizzatori della serata, erano preoccupati, volevano rimandarmi a casa, ma io impavida e speranzosa che la scarsa luce della notte nascondesse il mio viso malconcio, cantai e suonai, come se niente fosse accaduto. Il dolore prese il sopravvento a casa, ma la mia serata era ormai salva. Non mi sono mai preoccupata del mio aspetto esteriore, quello che mi interessava era suonare e cantare, addirittura in un periodo indossavo un cappotto militare rubato ai militari che avevano invaso Sommocolonia e che avevano fatto la loro sede operativa al Ristorante del Ponte di Catagnana, anche le scarpe avevo rubato, ma renderle portabili per il mio minuscolo piede, fu un’impresa impossibile, nonostante infiniti giri di stringhe.

Ma sono grata alla vita, ce l’ho fatta a stare in equilibrio su quel filo ed ora assaporo la terra, la certezza della stabilità della terra, non posso più cadere, faccio piccoli passi, saggiando sempre il terreno e al bisogno, mi sorreggo con il bastone.

 

I talenti…..dobbiamo scoprire quali sono i nostri talenti, e farli fruttare. Specialmente noi donne, spesso votate alla rinuncia,  in favore del bene degli altri.  Solo dando valore a noi stesse, diventeremo fonte di un bene, capace di dissetare anche le persone che fanno parte della nostra vita.

Ecco cosa dovremmo riuscire a fare: scoprire i nostri talenti e coltivarli, dargli spazio, incanalarli nel modo giusto per permettergli di colmare i vuoti della vita; gli spazi aridi, piatti e privi di fioriture gioiose. La solitudine. E’ troppo importante lasciare uscire il bello che è dentro ognuno di noi.

 

Frammenti di vita di una donna: 97 anni, quando parla si illumina, ha il viso disteso segnato da  lievi rughe ben amalgamate con lei, non sembrano aggiunte dal tempo ma facenti parte dell’essenza di quel volto (mi chiedo se le ha sempre avute!). E’ orgogliosa dei capelli fatti di fresco, il colore di sempre, con l’immancabile ciuffo bianco che l’ha distinta fin da bambina. Non indossa monili e lo fa notare con soddisfazione, ricordando che nonostante ne abbia in abbondanza, non sente il bisogno di agghindarsi per sembrare più bella, bella lo è già. Ed è vero. La bellezza quella profonda, che nasce da dentro, non quella apparente di un corpo ben fatto o di un viso ben disegnato. Io l’ho conosciuta ai tempi delle magistrali, era la mia insegnante di “didattica”  e in me, ha lasciato il segno. In una scuola che doveva insegnarti ad insegnare, la didattica era la cenerentola delle materie e lei l’ha trasformata in un palcoscenico dove fare le prove per la vita, non solo da futuri possibili maestri. Quando posso, vado a trovarla, è un po’ come trovare il tempo per fermarsi in un punto tranquillo dove poter osservare un bel panorama: non un insegnante, una Donna, una meraviglia di Donna. Non si è mai messa in cattedra, ha regalato, suggerito, condiviso, offerto, in punta di piedi, delicata e leggera. Niente ricette o vangeli… vita. Fatta di dubbi, dolori, preoccupazioni, rabbia, soddisfazioni, gioie, allegria… ma sempre con l’amore per la vita.

Per me non ha età, l’ho sempre vista così. Mi piace credere che oltre il cancello, dove abita, il tempo non esiste.

Dopo averle fatto visita, esco soddisfatta e grata alla vita, che nel cammino mi ha fatto incontrare una donna così.

 

 

Primetta Suffredini

 Duse Lemetti

Commenti

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  1. Quando la santità non è solo appannaggio di regole canoniche e altari…

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