La nostra Memoria condivisa.
La Grande Guerra del ‘15/18 nella sua implementazione quotidiana sul territorio, nella nostra gente, nei volti dei nostri nonni, nella nostra terra.
Dalla Valle del Serchio, sperduto territorio appenninico, partono migliaia di ragazzi, tra quelli residenti e quelli nati e poi trasferiti altrove.
Questo dato, moltiplicato per tutti i territori, le vallate, i borghi del Paese ci dà la misura dell’immane sforzo bellico che compie la giovane Nazione.
Uno sforzo, diremmo oggi “nazional-popolare”.
Della Storia. Quella con la S maiuscola.
Quella che si insegnava a scuola, con il rispetto profondo, dovuto, sentito, per chi quella Storia aveva vissuto.
Come fanno subito dopo guerra le Amministrazioni locali, che impiantano il Viale o il Parco della Rimenbranza, erigono i Monumento ai Caduti, posizionano targhe, curano la riconsegna dei resti alle famiglie, le medaglie al Valore , le nomine a “Cavaliere di Vittorio Veneto”.
La perpetrazione della Memoria. Sforzo doveroso e non vacuo, necessario, sentito.
Se il Paese rimane quello che era, anzi viene potenziato dalle annessioni dei territori irredenti, lo dobbiamo a loro. Ai Soldati Italiani.
Che partirono, obbedendo ad un ordine che li strappava alla vita, che li costringeva ad una nuova attività sconosciuta ma necessaria, diversa e pesante: combattere.
E che tornarono, non tutti purtroppo.
Per molti, tanti, tantissimi… il ritorno fu un telegramma, un foglio di notifica, una cassettina di zinco, a volte.
Ma quelli che ebbero la fortuna di tornare portarono con loro una diversa speme, una visione globale che era maturata dallo sforzo congiunto, dalla condivisione di momenti difficili, del dolore, della sofferenza, del pericolo.
Tra loro si chiamavano “fratelli”.
Fratelli nella guerra, una “fratellanza militare” che poi si tradurrà proprio come il nome rivela, in organizzazioni umanitarie e sociali sul territorio.
“La Fratellanza Militare” , che esiste ancora oggi in molte città…
Si trovavano nei dopolavoro, nei circoli, e si riconoscevano tra loro.
Mettevano appesi nella case, in genere nella stanza “bona”, il salotto per chi lo aveva, il quadretto
con il Foglio di Congedo con onore, le medaglie, lo Stato di Servizio
Momenti di vita quotidiana, la guerra era entrata nella vita e non si poteva più ignorare.
Segnava dentro.
Il 4 Novembre ricorre il Centenario dell’Armistizio della Grande Guerra tra l’Italia e l’Impero Austro-ungarico.
Viene ricordata generalmente anche come la Giornata delle Forze Armate.
Poi, se uno presta attenzione e legge meglio, in realtà scopre che è la “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”.
Quindi il primo soggetto della festività, istituita nel 1919, è la raggiunta Unità Nazionale, l’annessione delle terre irredente, Trento e Trieste, e viene scelta come data l’entrata in vigore dell’armistizio, che fu firmato il pomeriggio del 3 Novembre 1918, alle ore 18,30 ( circa… non se lo ricorda più nessuno l’ora esatta, ma tanto andava in vigore alle 15 del giorno successivo).
Per firmare l’Armistizio, inteso come “sospensione immediata delle ostilità”, che fu discusso e redatto materialmente nella prestigiosa “Villa Molin”, fu scelta invece la “Villa Giusti” tra Abano e Padova, una anonima e sgraziata fattoria riadattata a villotto di campagna, proprio per umiliare in qualche modo ancor di più il nemico, che ormai capitolava, e avrebbe anche chiesto un anticipo dei termini di resa…
Resa che verrà successivamente ratificata e firmata con il patto di Versailles, che pone fine alla Prima Guerra Mondiale il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia.
Era stato scritto così male che il maresciallo Ferdinand FOCH, ufficiale francese al comando degli Alleati, dirà con notevole preveggenza: “Questa non è una pace, è un armistizio per vent’anni.”
Il secondo soggetto della festività del 4 Novembre sono le Forze Armate.
Invero, al momento della firma dell’armistizio erano solo due: il Regio Esercito e la Regia Marina.
Per quello il famoso “Bollettino della Vittoria” firmato da Diaz, in realtà è doppio, perché dopo quello del 4 Novembre, l’Ammiraglio Paolo Emilio Thaon di Revel, Comandante Supremo della Regia Marina, ne emise uno proprio il 12 Novembre 1918 per proclamare la vittoria italiana sui mari contro la flotta Austro-Ungarica.
Non fu emesso anche dalla Regia Aeronautica perché questa verrà costituita come Forza Armata solo nel 1923; fino ad allora era un Servizio in forza al Regio Esercito. Ugualmente per quanto riguarda i Carabinieri Reali, prima Arma del Regio Esercito costituti in Forza Armata autonoma solamente nel 2000 .
Vien da sorridere pensando a moltissimi bambini nati agli inizi degli anni ‘20 e chiamati con il nome proprio di “Firmato” in onore a Diaz. L’ignoranza popolare aveva accostato la parola “Firmato” a colui che materialmente emetteva, firmava il bollettino, e cioè il Comandante Generale Diaz, interpretandola invece erroneamente come nome proprio; poi successivamente i preti dal momento che non conoscevano un santo di nome Firmato (che invece esiste ed è del VI Secolo), cercavano di imporre l’alternativa più assonante di “Firmino”.
Storie della Grande Guerra.
Come le storie minute delle centinaia di nostri paesani barghigiani; nessuno ha trovato il numero esatto di quelli richiamati, ma erano molti, moltissimi che partirono dal 1915 per alimentare i fronti di guerra e sulle regie navi; sappiamo però i caduti, oltre 160… anche qui grazie al buon lavoro di ricerca di Pier Giuliano Cecchi abbiamo un dato numerico molto vicino al reale; rimangono poche variazioni interpretative dovute a doppie trascrizioni, ma 160 caduti circa… uno più o uno meno, sono comunque molti, tanti, per la nostra terra.
160 morti in operazioni, la nostra gente.
Partiti da Barga, da Fornaci, dai paesini della Fondovalle e dalla montagna, dalle più remote località, per la prima volta vedevano un Mondo Nuovo.
Andavano a “naja”; che è una parola militare strana, della quale nessuno conosce l’etimologia vera, anche se è sulla bocca di tutti quelli che si atteggiano ad averla fatta.
Vuol dire “tenaglia”… “tenaja”… “naja”, un legame stretto, che ti lega, ti tiene.
Entrano rapidamente in quello che definiremmo oggi uno “sharing”, una miscellanea di costumi, idiomi, usanze e culture.
Entravano nell’Italia.
Salivano sul treno con la “cartolina precetto”, raggiungevano i Depositi Territoriali, lì venivano “incorporati”, vestiti con l’uniforme, molti, i più “rustici”, i campagnoli, i montanari, non conoscevano l’uso e l’utilizzo della biancheria intima, e convinti di doverla poi pagare, la rifiutavano: “a me non servon le mutande, son roba da ricchi, no grazie! “
Poi l’addestramento, rapido, intenso e spartano.
Lo completavano al fronte, quelli che ce la facevano.
La disciplina, l’obbedienza, l’uso del fucile ’91: caricare, puntare, far fuoco a comando.
Il Fucile ’91. Un’arma tutta italiana…quasi!
Il Fucile mod.1891 Mannlicher-Carcano-Parravicino. Il “NOVANTUNO”!
Già nel leggere tutto il nome ufficiale si intuisce che c’è qualcosa che non quadra.
Lo studia e lo progetta un operaio capotecnico principale di prima classe della Fabbrica Reale di Terni, Salvatore Carcano, che per far prima, dopo aver brevettato il sistema di chiusura a otturatore girevole e scorrevole con una sicura da lui inventata, fa acquistare i diritti (5.000.000 lire oro) sul “sistema di caricamento con cucchiaia dal basso” dalla austriaca Mannlicher a 6 colpi. Il fucile mod. 1895 che la Steyr-Mannlicher realizzerà per il proprio esercito austro-ungarico sarà a 5 colpi! Incredibile!
Il terzo nome, Parravicino, c’azzecca poco nello studio, progettazione costruzione del “Novantuno”; costui è un generale, che dirige la Fabbrica Reale d’Armi di Terni, che segue la vicenda e pretende, come Direttore, di firmare anche lui il documento finale di approvazione del fucile, segnando così pretestuosamente con il suo nome, il “Novantuno”…
Le solite storie italiane… si cominciava malino.
Ma l’arma funziona; bene o male, spara, spara così tanto che attraversa tre secoli di sparatorie!
Spara in Libia, sul Carso, davanti il Piave, e nelle varie versioni sparerà ancora dopo, in Spagna, in Russia, in Grecia, e purtroppo ancora in Italia. Ancora oggi, dopo aver ucciso Kennedy a Dallas, lo troviamo in mano ai guerriglieri africani! Non è un bel primato, ma tant’è.
Le munizioni le fornisce la S.M.I. di Fornaci di Barga o di Campotizzoro, Pistoia.
E qui un emozione, un tuffo al cuore, quando dopo mesi a Novara, o a Padova, o a Mantova, o sul Carso il nostro soldatino del Comune di Barga apriva in poligono una scatola di cartucce “S.M.I. Stabilimento di Fornaci di Barga”.
Torniamo al 4 Novembre, al Centenario.
Questi giorni tutti i social, i giornali, riportano frasi fatte come: “La Vittoria mancata”, la “Quasi Vittoria”, la “Vittorio Mutilata”, sempre per la mancata annessione della Dalmazia e di Fiume!
Questo perché la città di Fiume, che sarà oggetto di un lungo e doloroso contenzioso dannunziano, al limite della guerra civile, non era compresa negli accordi iniziali – il Trattato (segreto) di Londra del 26 aprile 1915, nel quale si ridisegnavano gli assetti europei post-guerra.
I patti son patti.
Ma la Vittoria resta. Con la “V” maiuscola.
Non dobbiamo aver paura di dirlo; lo so, non ci siamo abituati.
Ricordiamo piuttosto meglio Caporetto, che Vittorio Veneto.
Ci piace farci del male. L’autolesionismo italico.
Anche il Generalissimo Diaz, quello che prende il posto del “Macellaio” Cadorna,
quando gli comunicano il grande successo di Vittorio Veneto prodromo dell’armistizio, in perfetto napoletano chiede ai suoi ufficiali di Stato Maggiore, indicando una carta geografica: “Ndò cazzo stà Vittorio Veneto?” (è documentato!).
È così; la devastante ferita del Secondo Conflitto Mondiale ci ha bruciato; questa vittoria passa indietro, più sotterranea, silenziosa, quasi scroccata, indecente, da vergognarsene un po’.
Però esiste. C’è. È presente e viva nella memoria.
Son gli Austro-Ungarici, con un giovane ufficiale di madre italiana, Camillo Ruggera (poi si farà austriacare il cognome in Kamillo e con questo cognome firmerà la copia dell’Armistizio) che vengono a chiedere un armistizio; vogliono arrendersi.
Non ce la fanno più. Han perso loro, vinciamo noi.
È scritto nell’Armistizio. Lo chiedono loro, lo accettano loro. Lo firmano loro.
Trento e Trieste non son chiacchere, sono città importanti.
Trieste è il porto strategico sull’Adriatico, per l’Impero Austroungarico!
E’ la seconda città dopo Vienna.
Trento è la capitale del Sud Tirolo.
Sono italiane, chiudono la Quarta Guerra Risorgimentale. L’Unità Nazionale.
L’oggetto iniziale della giornata commemorativa del 4 Novembre.
Il capitano Ruggera che viene a parlamentare ed offrire la resa, viene inizialmente accolto a mitragliate dai nostri soldati a Serravalle d’Adige, vicino a Rovereto; la guerra alla lunga è crudele, alla fine non si crede più neanche alla bandiera bianca; poi è tutto a cascata… gli credono, lo impacchettano, lo bendano con un cappuccio e lo portano al Comando a Abano.
Questi fa accreditare in serata il Generale Von Webenau, e da lì… le trattative, i dettagli, le condizioni, e l’Armistizio.
L’Austria Ungheria si arrende all’Italia. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.
Non son solo parole retoriche; davvero l’esercito Austroungarico è allo sbando più totale. È alla fame.
Quella fame che come un “leitmotiv” ricorrente nella nostra Memoria, ma che non trova alcuna attinenza vera … la Prima Guerra Mondiale non porta la fame, sarà la Seconda invece, e tanta…
I soldati Italiani mangiano, sempre; i rifornimenti arrivano, grazie ai porti tirrenici liberi e aperti, al contrario dei porti adriatici dell’Austria-Ungheria interdetti dal potente blocco navale che la Regia Marina effettua alle Bocche del Cattaro e che impedisce l’afflusso logistico dei rifornimenti. Gli Imperi invece nel 1918 muoiono letteralmente di fame, han finito tutte le riserve, sono strangolati dal blocco degli Alleati.
Una di queste mattine, ascoltavo in auto una trasmissione su Rai Radio Uno (la prima emittente nazionale) dedicata alla Grande Guerra; una cosa inascoltabile, una somma di imprecisioni storiche, di fesserie e di luoghi comuni errati, senza cogliere il vero senso di questa grande Storia.
Il conduttore, con voce solenne e piena, inizia con le solite “scarpe di cartone”, per continuare poi con le “uniformi scintillanti”, e i “ragazzi del ’99 che partirono volontari”… ho spento.
Non senza avergli scritto un lungo messaggio e una mail, alla quale… non hanno risposto.
I soldati nella Grande Guerra avevano scarponi alti di cuoio grasso, il Modello ‘12, con i chiodi. Le fasce mollettiere garantivano una ottima tenuta del calore, migliore delle calze.
Erano ottime calzature, certamente non di cartone, immagine e ricordo della successiva Seconda Guerra Mondiale e del fronte russo.
Ma la Storia è storia, son date e luoghi, non si deve fare confusione né scrivere e dire imprecisioni.
Le uniformi scintillanti….
Con la scoperta nel 1884 della Poudre “B” (da Blanche), una polvere infume – la prima del suo genere, sviluppata da Paul Marie Eugène Vieille, che non produceva fumo, la visibilità nei combattimenti era molto aumentata, e pertanto era assolutamente necessario migliorare il mimetismo. I Francesi che l’avevano inventata, andarono in guerra con i cappottoni color azzurro e i pantaloni rossi. Perfetti per i tiratori scelti tedeschi!
Il Regio Esercito dall’inizio del XX secolo aveva adottato la nuova uniforme Mod. 1909 color mimetico, il “grigio-verde” che si attagliava perfettamente al nostro teatro operativo, con i gradi a bassa visibilità. Ma quale “scintillanti”!
Era una delle uniformi meglio riuscite e indovinate; l’aveva ideata e studiata l’Ing. Brioschi, Presidente del C.A.I. di Milano, che aveva pensato ad un colore che meglio si inserisse nel territorio nazionale; il “grigio-verde”.
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