La bottega del Caproni a Porta Macchiaia

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(a Graziella)

 

La bottega doveva essere lì da tanto tempo, perché la Marisa conserva ancora il carretto a pedali con cui veniva consegnato il pane. Mio padre mi raccontava che, quando era giovane lui, la gestiva il vecchio Caproni, che aveva il soprannome di Senzapiedi perché portava un numero di scarpe esagerato.

I miei primi ricordi risalgono alla metà degli anni ’60, quando avevo sette anni e mia madre mi mandava giù a prendere il pane, di cui a quel tempo si faceva un largo consumo, molto superiore a quello che se ne fa oggi. Eppure non si ingrassava, forse perché eravamo sempre in movimento. Il mio preferito era un panino all’olio a forma di otto, dal retrogusto dolce che si sposava bene col salato del prosciutto crudo, che allora era uno solo, quello toscano pepato e saporito. Parma e San Daniele erano ancora di là da venire. A volte ci prendevo anche del tonno sfuso, in un foglio di carta oleata.

Dentro la bottega si respirava un clima di grande serenità e gentilezza, soprattutto nei confronti di noi bambini. Fuori erano appesi gli stoccafissi, c’erano le scope e le granate e i sacchi di juta contenenti la farina gialla e i fagioli scritti, con le palette di ferro infilzate dentro. Anche le palette sono conservate, insieme alla bilancia di allora.

Subito accanto c’era il bar, comunicante con la bottega di alimentari e d’estate animato già dalla mattina. Vi si svolgevano partite a briscola accanite e molto parlate,  con in palio bicchieretti di vino rosso. Era frequentato prevalentemente da avventori che venivano da fuori porta, dalla campagna circostante. Ma potevi incontrarci personaggi eccentrici come il regista inglese Peter Hunt, che stava alla Fornacetta, o il pittore Umberto Vittorini con le sue sciarpine di seta e i cappelli vistosi.

Poi c’era il forno, appena fuori da porta Macchiaia. Mi ricordo i fornai, soprattutto il Domenico che abitava accanto a casa nostra ed era un vero personaggio, sempre infarinato dalla testa ai piedi.

Un po’ più avanti, nella via di Mezzo, stazionava la seicento multipla blu del Demetrio e dell’Antonio Caproni, una delle rare automobili di allora. E lì vicino c’era una curiosa botteghina che vendeva un po’ di tutto, dai pettini ai detersivi. La nonna una volta mi ci mandò a comprare un pezzo di sapone di Marsiglia (anche la lavatrice era di là da venire, si lavava ancora tutto a mano) e non ho più dimenticato il profumo di pulito e la sensazione di gran fresco – senza aria condizionata. Fuori c’era un piccolo distributore di palline di chewing-gum colorate: con una monetina da dieci lire ne prendevi tre. Erano molto zuccherate, tutto lavoro per il dentista.

Con venti lire potevi comprare invece un sacchettino di mini-caramelle alla farmacia del Vincenzo Simonini in piazza Angelio: sul bancone c’erano dei vasi di vetro pieni di piccole delizie al miele, all’orzo, al rabarbaro, alla liquirizia e alla menta forte: costavano una lira l’una.

Da porta Macchiaia a piazza Angelio c’era il nostro mondo, e raramente ci spingevamo oltre. C’erano le botteghe di alimentari del Marchetti, del Dianda, del Casciani e della Maria sotto piazza. La bottega del Mario, il verduraio, e la macelleria del Gigetto. E poi la bottega di ferramenta dell’Angiolino Clerici, la merceria dell’Esperia, la latteria del Palandri, il Caffè Capretz con il biliardo, il telefono pubblico e la televisione, dove ho guardato i miei primi mondiali in bianco e nero, quelli del ’66 in Inghilterra e della figuraccia contro la Corea. C’erano l’odiato barbiere, la pettinatrice, il calzolaio, l’agenzia di viaggi ed emigrazione, l’ufficio postale e persino la banca, forse l’unico posto dove non abbiamo mai messo piede. E anche un ristorante che si chiamava La Vecchia Barga e che nel tempo è stato soppiantato da quelli sorti nei paraggi del Giardino.

Ci si poteva anche vestire comprando le scarpe nella bottega del Candido – che teneva anche le Superga – e un paio di calzoncini corti e una maglietta dal Giannini in piazza del Comune, che vendeva anche giocattoli e giornali, con i titoli delle notizie esposti fuori a caratteri cubitali. Mi ricordo, nel ’68, quella dell’invasione dei carri armati sovietici a Praga, che m’impressionò molto. Era agosto, e avevo dieci anni.

Tornando al Caproni, ho ancora ben presente la scena delle casalinghe in processione verso il forno con le teglie delle lasagne, degli arrosti e delle patate. Questo succedeva la domenica mattina, prima che suonassero le campane per la messa in duomo.

Se raramente ci spingevamo oltre piazza Angelio, ancora più di rado scendevamo verso il Giardino. Poteva accadere per una partita sul campetto del Sacro Cuore, oppure per la fiera di san Rocco. L’unica eccezione la facevamo per il gelato del Baiocchi, la cui bottega era molto vicina al castello, appena dopo il ponte nuovo. Dietro il banco c’erano il Raffaello e la figlia Paola, allora appena una ragazza. Speravamo che fosse lei a servirci, perché le sue dosi erano più generose. Con trenta lire ti faceva un bel cono e ci metteva sopra anche la panna.

Era il tempo delle nostre escursioni a piedi per la giornata: a Tiglio, Renaio, Sommocolonia. Il punto di ritrovo per la partenza era sempre la bottega del Caproni. Io e mio fratello John scendevamo lentamente via della Speranza con i soldi precisi e spesso con il pallone (da tutte le parti c’era un campetto da calcio, persino a Bebbio), di solito un po’ in ritardo sulla tabella di marcia. A porta Macchiaia ci si incontrava con gli amici Paolo, Graziano, Alessandro e Giuliano, che era l’unico ad abitare fuori porta ma proprio lì a un passo, nella villa Buenos Aires alla Fornacetta.

Compravamo i panini alla bottega: quelli più economici, con la mortadella o il salame toscano, costavano cinquanta lire. Due bastavano e avanzavano per il fabbisogno giornaliero. Compravamo anche le bottiglie di spuma, che stappavamo poi una alla volta, bevendoci tutti senza bicchiere e senza provare ribrezzo uno dell’altro. Le bottiglie erano di vetro e le riportavamo sempre indietro, ottenendo in cambio uno spicciolino.

Fin qui gli anni Sessanta. Degli anni Settanta mi ricordo le lunghe serate davanti al forno, dove la terrazza soprastante formava una piccola loggia. Ascoltavamo incantati e divertiti i racconti dei fornai (racconti di donne e di motori, spesso non privi di esagerazione) e le loro sterili ma accanite discussioni politiche, che non portavano mai a niente e talvolta sfociavano nel comico. Se andava bene rimediavamo anche un pezzo di focaccia calda. Ci andavamo anche d’inverno, quando noi si veniva a Barga per le vacanze di Natale. Più che altro per trovare un po’ di tepore. E’ lì che Giuliano (che nel frattempo, dopo i mondiali del ’74, era diventato per tutti Ayala) si è fatto tatuare, con inchiostro e aghi molto sommariamente disinfettati, la testa del Che Guevara con tanto di basco stellato, marchio incancellabile a futura memoria della sua gioventù ribelle.

L’ultimo ricordo, molto nitido, risale ai primi anni Ottanta. Un torneo di calcio a Sommocolonia in cui noi ci presentammo come Porta Macchiaia e riuscimmo a portare a casa la coppa, dopo una finale molto tirata e vinta solo ai tempi supplementari. Ayala ci sorprese tutti (compreso il portiere avversario che era il Francesco, nipote della Graziella) con un numero che non rientrava nel suo repertorio abituale: un gran tiro da fuori area che ci consentì, praticamente a tempo scaduto, di disputare i supplementari, nei quali fummo noi a prevalere. Si fece gran festa e tutto finì con una cena memorabile sulla terrazza del Caproni, offerta generosamente e curata dall’Attilio, dalla Marisa e dall’Ivana. Mio cugino Elio, che abitava anche lui alla Fornacetta ed era il più piccolo di tutti, dopo averci sorpreso piacevolmente in campo si rese protagonista anche al tavolino col suo appetito formidabile.

Ma ormai eravamo migrati tutti al Giardino, attratti dalla novità dei campi da tennis, della pizza dell’Alpino e soprattutto delle ragazze. Non so quando hanno chiuso i battenti la bottega di alimentari, il bar e il forno dei Caproni, seguendo il destino di quasi tutte le botteghe della vecchia Barga. So che ogni volta che ora passo da porta Macchiaia provo la sensazione di un vuoto, di un’assenza. Come se guardassi una cartolina dell’inizio del Novecento, bella ma un po’ sbiadita, e senza voci e colori.

E anche un sottile dispiacere, per dirla con Lucio Battisti che era il nostro mito di allora. Perché la corrente del tempo mi ha portato via, insieme alla vecchia bottega del Caproni, anche gli anni più azzurri, quelli dell’infanzia e dell’adolescenza.

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