Si suol dire che il mondo cambia, che quello di ieri non è quello di oggi. Non solo riguardo alle innovazioni tecnologiche, ma riguardo ai paesaggi che ci attorniano, e nei quali viviamo. Chi non è più tanto giovane ricorda, sul filo della memoria, come fosse un film, di quanto siano mutati i nostri panorami. A cominciare da quelli che vediamo percorrendo le strade che, da Lucca, conducono in Media Valle del Serchio e Garfagnana.
Nel volgere di mezzo secolo, il cemento ha invaso spazi un tempo verdi. Lentamente, la Media Valle ha finito per congiungersi a Lucca, divenendone periferia. L’evento ha avuto inizio col boom industriale e con la fine della società agricola. Quella società che faceva della coltivazione della terra, e l’allevamento del bestiame la sua economia e la sua vita. Gli aratri, trainati da buoi o muli, furono sostituiti dai trattori, i mitici Landini i quali, nella piana attorno a Borgo a Mozzano, all’altezza di Valdottavo, venivano impiegati anche per annaffiare, di notte, i campi di mais, prelevando l’acqua dal Serchio. Dal buio giungeva il loro rombo, lento e continuo come quello di un enorme cuore meccanico. Di quei giorni a esser rimasto indenne è stato il percorso della ferrovia; indenne e degradato, in quanto ha pressoché perduto caselli e sale d’aspetto nelle stazioni. Gli uffici sono chiusi, presidiati, sembra, dai fantasmi dei nostri ricordi. Da tempo non passa più la Littorina, ma convogli sovente istoriati da scritte e simboli di chi ama dipingere o sfregiare monumenti e altro con le bombolette spray.
Gli spazi verdi, che permettevano di guardare il corso del Serchio, sono stati quasi tutti invasi da capannoni industriali, da alcuni dei quali fuoriescono vapori a forma di nube che svaniscono nel cielo, smorzandone l’ azzurro. Sulle alture e in pianura, tante sono le nuove abitazioni, che hanno conferito ai paesaggi armonie ed equilibri che ben esprimono le conquiste di una società moderna. Molte di esse sono recintate alla stregua di zone invalicabili. Noi, uomini sapiens in versione tecnologica, diffidiamo infatti l’uno dell’altro, anche perché la macro e microcriminalità sono in espansione e abbiamo bisogno, giustamente, di sentirci sicuri, blindandoci nella maniera più adeguata alle nostre esigenze.
In passato eravamo abituati a riconoscere, nel suono delle sirene, autoambulanze e forze dell’ordine. Oggi segnale analogo lo emettono gli allarmi antifurto nel caso i ladri tentino di perpetrare un’intrusione. Cambiato, e ai giovani in parte estraneo, anche l’universo dei suoni. Tra cui il canto dei galli, il muggito della mucca, il raglio del somaro; resiste il nitrito di qualche cavallo. I primi, tornassero a farsi sentire, sarebbero ritenuti incompatibili con la quiete pubblica, mentre invece vengono tollerati, anzi ben accetti, rombi di motorette con marmitta irregolare, televisori accesi al massimo volume, e via di seguito. Ma tra i suoni, che crediamo sarebbero sgraditi, dovremmo aggiungere i rintocchi delle campane, le cui torri, munite di impianto elettrico, funzionano adesso in automatico, sopperendo così alla mancanza degli storici campanari, veri artisti di battenti e bronzi, quasi tutti in congedo.
A ciò non possiamo non aggiungere quanto ci accompagnava durante le stagioni: la varietà degli odori. Di maggio e giugno, la campagna veniva inondata dall’effluvio del fieno, dolce e penetrante, poi da quello del grano appena falciato, terragno e polveroso; di settembre si espandeva quello di zucchero della frutta matura, di ottobre quello agrodolce dell’uva cui faceva seguito l’asprigno delle vinacce, che potevano ubriacare gli equini le avessero ingerite. Unico suono, rimasto invariato, e che certo non verrà meno, è lo scorrere del Serchio durante le piene; scuro di tempesta, il cielo non si riflette nelle sue acque colore del fango; uno sciabordo costante e fondo, che sembra laceri le rive, s’innalza dal suo corso che, scendendo dalla Garfagnana, si incammina verso il mare, traversando e lambendo città e paesi. Momenti di paura, in cui il Serchio torna a ristabilire la propria sovranità che, ieri come oggi, risponde alla forza della natura, della quale noi, pur ritenendoci tanto importanti, siamo ospiti. Solo ospiti.
Finita la cosiddetta piena, non ci sorprende se dai rami di molte piante siano impigliati rifiuti, tra cui sacchi di nailon, o copertoni di macchina, che le acque hanno raccolto debordando sui greti.
Ma torniamo a terra, dove molti tratti di verde, nel bel mezzo dei centri abitati, sono nell’incuria. Siepi e piante selvatiche li irretiscono. Lo stesso avviene nei territori di collina e di montagna. Preistoriche mulattiere sono abbandonate, i loro selciati hanno ceduto e sono aggrovigliati di vegetazione selvatica. Le giovani generazioni hanno perso l’intesa e il dialogo con la terra e i suoi percorsi. Esiste solo l’asfalto, la macchina, la moto e lo smartphone.
La realtà vera, quella che si può vivere e toccare con mano ha finito con l’essere vanificata. Se poi ci addentrassimo nei boschi, o nei castagneti, scopriremmo che molto di quello che esisteva ha subito una vera e propria trasformazione. Castagni e querce sono avvolti da edere e vitalbe, che poco a poco li soffocano; i sentieri sono ostruiti dai rovi o franati. Le canalizzazioni delle acque piovane hanno così finito per riempirsi di detriti, invalidandosi. Per ritrovare le epoche in cui la campagna di pianura e di montagna era coltivata, non resta che affidarci ai quadri degli antichi pittori, con immagini, sfondi, prospettive e colori mozzafiato, oppure ai paesaggi dell’anima tramandati dai poeti. Nel nostro caso a Giovanni Pascoli.
Nelle sue poesie, come nei quadri dei grandi artisti, ritroviamo quanto perduto. Se rileggiamo L’assiuolo in una notte di Luna piena, e ci affacciamo ad una finestra aperta sulla campagna, caliamo in un’atmosfera surreale quanto vera. Lo scorrere del tempo sembra fermarsi davanti al chiarore di perla che avvolge il mondo. Ombre e sfumature vengono delineate da un mandorlo ed e un melo. Le loro ombre bastano per guardare meglio perfino il cielo e le stelle e per udire, nitido, il canto dell’assiuolo, un flebile chiù soffocato da un’eco di temporale e lampi all’orizzonte. Cantano i grilli, che evocano sistri d’argento e la campagna, la natura ci appaiono integre, incontaminate e sorelle come non mai.
Se ho evocato questa poesia pascoliana, è per ribadire che non ci sono rimasti che i paesaggi dell’anima, gli altri si sono eclissati, finendo chissà dove, e nemmeno Internet, con la sua forza virtuale, potrà restituirceli. Se li vogliamo, dobbiamo affidarci all’arte di immagini, musica e narrazioni.
Tag: alberto magri, vincenzo pardini, paesaggi, mutare, valle del Serchio, giovanni pascoli
JKJ
10 Agosto 2020 alle 14:11
Nelle solitarie pietraie fra le montagne, c’è uno strano mercato: puoi barattare il vortice della vita, con una beatitudine senza confini.
Milarepa