Nel secolo scorso molti lucchesi, come pure tanti altri connazionali di altre parti d’Italia, emigrarono in Inghilterra dove, lavorando duramente e onestamente, s’integrarono con quel popolo divenendone parte effettiva e creandosi proprie famiglie, con relativa discendenza. Ma, ovviamente, pur sempre mantenendo la loro identità culturale d’italiani, come la lingua nativa, la religione cattolica e vari altri legami affettivi, sia con la loro Patria di origine, che con parenti e conoscenti in quella rimasti. Le famiglie erano fra loro unite; molti matrimoni dei figli avvenivano nella loro cerchia e, nelle città, nei centri dove risiedevano, erano sorti dei “circoli italiani”. In detti circoli si svolgevano feste, ricorrenze, pranzi, cene, spettacoli musicali e di altro genere…: tutte queste attività erano ben viste dalle persone del posto, molte delle quali avevano contratto amicizia con gli italiani.
Ma questa benevola convivenza cominciò a incrinarsi quando, negli anni trenta, l’Italia ebbe violenti contrasti con la Gran Bretagna, che culminarono con la presa dell’Abissinia da parte dell’Italia e con le “sanzioni” che gli inglesi ed i loro alleati gli imposero. Per cui le autorità inglesi presero a sospettare degli italiani da loro residenti ed iniziarono a sorvegliarli, fin nelle loro ricreazioni. Poi, sul finire del decennio del ’30, la Gran Bretagna e la Francia entrarono in guerra contro la Germania la quale, aiutando l’Italia a sostenere il peso delle “sanzioni”, aveva stipulato con questa un patto di alleanza; e dunque anche l’Italia stava per prendere parte al conflitto.
A questo punto gli italiani in Gran Bretagna, considerati come potenziali nemici, venivano osteggiati in vari modi e nella nostra comunità crescevano le preoccupazioni che venivano esternate in concitate e nervose espressioni, come avvenne in una domenica mattina di maggio ’40, all’uscita della Santa Messa:
“Ma che vorranno fare: imprigionarci tutti?”, diceva uno. “No, che non gli conviene, che siamo in tanti e gli costerebbe troppo!”, fece un altro, sorridendo. Al che un altro ancora, intervenne: “Non è il caso di scherzare, che la faccenda non è per nulla bella”. “E allora, che si deve fare? – ribatté il precedente, mentre l’ultimo riprese -:
Come si suol dire, non bisogna fasciarsi la testa prima di averla rotta e finora, pur sospettando in generale di noi italiani, le autorità non hanno fatto del male ad alcuno. In fondo siamo anche inglesi, molti di noi ne hanno assunto la cittadinanza, i nostri figli quasi tutti sono nati in Inghilterra; ed in questa contingenza la gente comune, che ben ci conosce, ci mostra comprensione ed amicizia, non condividendo l’atteggiamento dei pubblici poteri nei nostri riguardi. Comportiamoci bene, come sempre abbiamo fatto, da buoni cittadini; non prendiamo parte a discussioni politiche-militari e, se necessario, affermiamo che un’eventuale guerra fra l’Inghilterra e l’Italia la detestiamo con ripugnanza, il che è vero, e possibilmente restiamo tranquilli in attesa degli eventi”.
Quest’argomentazione convinse a malapena qualcuno, ma i più restarono scettici e infine una signora sintetizzò il pensiero dei più:
“Discorso troppo ottimistico: speriamo di no; ma penso che la realtà sarà assai più dura. Ed in questo caso dovremo cercare di sopportarla con dignità”.
Dieci giugno 1940: l’Italia dichiara guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia ed immediatamente in Inghilterra scatta la “caccia” agli italiani, evidentemente già ben preordinata: vengono arrestati i maschi con l’età compresa da diciotto (ed anche meno) fino ad oltre settant’anni di età e radunati in attesa di essere inviati in appositi campi di concentramento, come prigionieri di guerra: essi che militari non erano, bensì civili cui non veniva imputato alcunché di malefatta. Lo stato degli animi nell’italica comunità era alla disperazione e le donne, private ingiustamente dei loro uomini, gridavano pubblicamente la loro protesta.
“Ci punite senza che abbiamo commesso alcuna colpa; siamo da decenni nella vostra Nazione e di nulla potete accusarci. Ridateci i nostri figli, fratelli, mariti, padri…Perché ci fate questo?”. Altre, pacatamente, dimostravano con logica l’assurdità di detta deprecabile operazione:
“Hanno imprigionato i nostri uomini, come nemici, capaci di poter fare spionaggio, sabotaggio, e chissà che altro di male ancora, lasciando le donne ed i vecchi liberi: ma similmente pure queste persone altrettanto potrebbero fare le stesse azioni di quelli … Inoltre si trovano fra noi donne che hanno figli, nati in Inghilterra e adesso adulti, che militano nell’esercito britannico … mentre i loro padri vengono internati!”.
Frattanto la marina militare britannica, per esigenze belliche, aveva requisito molte navi mercantili, passeggeri e da crociera; ebbene, una di queste ultime era l’Arandora Star, bellissima nave transoceanica, che in molti anni di attività aveva solcato le acque di tante parti del mondo compiendo crociere di lusso, mentre ora veniva adibita a trasporto di deportati. Ed esattamente doveva trasportare in Canada, per essere internati in un campo di concentramento, proprio i nostri connazionali, insieme a altri prigionieri tedeschi e austriaci.
Il piroscafo, che in tempi normali aveva una capienza di poco più di 500 passeggeri, fu sovraccaricato da 1500 uomini, di cui un centinaio prigionieri di guerra; gli altri, prigionieri civili, erano soprattutto italiani, originari da varie regioni della Penisola, fra i quali anche del nostro territorio lucchese. Ebbene, conoscendo alcuni discendenti di quei deportati, a essi mi sono rivolto onde acquisire informazioni utili per la stesura del presente racconto; e questi, molto cortesemente, me le hanno fornite. In particolare uno di essi mi ha narrato di un certo Saverio, cugino di suo padre, che nel 1900 emigrò dalla Garfagnana, sua terra di nascita e si stabilì a Glasgow dove, lavorando di giorno come muratore e talvolta di sera come lavapiatti in un ristorante, raggiunse una buona posizione economica-sociale. Indi si sposò con una ragazza di famiglia italiana proveniente dall’Emilia, ed ebbe due figli. Infine, ormai sessantacinquenne, quando da poco aveva iniziato a godersi la meritata pensione eccolo, arrestato, assieme agli altri prigionieri, nel porto di Liverpool, sulla banchina presso la quale era ormeggiata l’Arandora Star, in attesa di salire a bordo! Sorvegliati dai militari di guardia, i deportati presero posto sulla nave: era una massa di persone stipata in poco spazio, ed i più avrebbero dovuto dormire coricati per terra. Quel giorno era il primo luglio 1940, esattamente tre settimane dopo l’inizio delle ostilità fra l’Italia e la Gran Bretagna: evidentemente il rastrellamento e la cattura degli italiani sul suolo inglese era stata rapidissima, un’operazione-lampo!
E in quello stesso giorno la nave issò le ancore e salpò verso il largo, verso l’Atlantico. Però, imprudentemente, essa, chiaramente senza armamenti, era senza scorta, senza segni che potessero indicare il tipo di carico umano che trasportava e seguiva una rotta durante la quale era probabile che incappasse in qualche sommergibile tedesco, i famosi U-Boot, che infestavano quei mari. Questo pericolo era recepito con apprensione, anche dai prigionieri, che però cercavano di sdrammatizzare la situazione cantando e scherzando. Mentre cantavano le guardie inglesi li osservavano con severità, ed allora qualcuno degli italiani disse a loro:
“Per caso, è anche proibito cantare?… Non cantiamo “Faccetta nera”, o canti simili; bensì “O sole mio!”, ed altre canzoni italiane…che sono più belle delle vostre!”.
Altri ancora, dicevano:
“Prendiamoci allegramente questa crociera di lusso, e di vacanza in Canada, per chissà quanto tempo; ed il tutto a spese degli inglesi!”. E giù, tutti a ridere.
Ma, purtroppo l’indomani, dopo appena un solo giorno di navigazione, il piroscafo fu intercettato da un sottomarino germanico, il cui comandante ritenne quella nave adibita a trasporto di materiale bellico e perciò, comodamente, dette l’ordine di lanciargli contro un siluro, che la colpì a morte. Subito scattò la disperata corsa verso le scialuppe di salvataggio, che erano poche rispetto al numero delle persone a bordo, in uno scenario di terrore e di morte, mentre la nave affondava rapidamente, e perciò la maggioranza di esse perì nel naufragio. La tragedia si svolse in meno di un’ora e infine il mare inghiottì l’Arandora Star e con essa perirono più di ottocento uomini, di cui quasi cinquecento erano italiani. L’ SOS, lanciato dal piroscafo fu raccolto da una nave da guerra canadese che, trovandosi non lontano, giunse rapidamente sul tratto di mare del naufragio, raccogliendo i quasi seicento superstiti, fra i quali Saverio, riportandoli in Inghilterra. I deportati tratti in salvo, dato l’accaduto, speravano in una amnistia:
“Adesso avranno pietà di noi, che siamo scampati a questa ecatombe, ci rimanderanno alle nostre famiglie, alle nostre case…”.
Invece no, furono internati in centri detentivi, in attesa di ripartire nuovamente verso campi di concentramento, questa volta nelle colonie inglesi in estremo oriente. Pure Saverio fece parte di un gruppo di prigionieri imbarcati su una nave diretta in chissà quale isola dei possedimenti britannici in Oceania; ma anche questo piroscafo, pochi giorni dopo la partenza, fu silurato e affondato da un sommergibile tedesco! E in questa circostanza, con tanti altri, Saverio perse la vita.
Questa drammatica, cruenta storia, accaduta dall’inizio del tempo di guerra e protrattosi per tutto il tempo della stessa con la prigionia di nostri connazionali, così ampia, così intensa e coinvolgente, stranamente è stata ignorata dai canali d’informazione come la radio, la televisione, la stampa: pubblicamente mai se n’è parlato; e semmai la storia è rimasta circoscritta negli ambienti dei superstiti e delle loro famiglie e frequentazioni. Ma finalmente, dopo quasi settant’anni di silenzio, timidamente, senza clamore, pressoché in sordina, si è iniziato a parlare della Arandora Star e, nelle località di origine dei protagonisti, e vittime, dei fatti, si sono erette lapidi ed eseguite commemorazioni, pur senza particolare clamore e risonanza a livello nazionale. Ed anche nella mia terra, a Barga, che ebbe dodici concittadini periti nell’affondamento dell’Arandora Star, si sono tenute alcune celebrazioni in loro ricordo, con Sante Messe di suffragio e con la posa di una lapide commemorativa. E ovunque si sono rievocati quei tragici eventi, è stato per rendere un po’ di giustizia ai perseguitati di quella vicenda, con spirito di pietà.
Ma quei tristi fatti non lesero i legami che, a livello popolare, univano gli scozzesi con i nostri emigrati. E, mentre trascorrevano gli anni e i decenni di silenzio sui tragici fatti di allora, i barghigiani in Scozia, aumentati con nuovi emigranti che dal dopoguerra in gran numero si stabilirono in quel Paese e sempre più ben inseriti in quel tessuto sociale, hanno permesso che si creasse un “gemellaggio” fra Barga e la città scozzese di East Lothian, che affratella i due popoli. Grazie a quest’unione si tengono scambi artistici, culturali, sportivi, musicali e perfino gastronomici tra le due comunità per cui, qui da noi, c’è chi ha definito Barga come: “città scozzese”!
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