Nel XIX secolo le terrecotte invetriate dei della Robbia furono oggetto di un’attenta e inattesa rivalutazione artistica. Diversi e molteplici furono i motivi, ma fra tutti giocò sicuramente un ruolo importante la spinta tecnologica nascente. Le terrecotte recuperarono il loro posto tra le sedi più alte delle gerarchie artistiche proprio per la loro natura artigianale, la quale suscitava adesso un fascino che al tempo del Vasari era del tutto sopito.
Alle sollecitazioni della fortuna del commercio robbiano partecipò anticipatamente anche la soppressione del 1855 degli ordini religiosi considerati privi di utilità sociale. Molte terrecotte si trovavano all’interno – quando non all’esterno – di edifici ecclesiastici destinati a non svolgere più la loro funzione, e in questo contesto apparivano non più controllate dalla presenza fissa di custodi. Plurifrazionati e facilmente maneggiabili, questi manufatti venivano trafficati con una frequenza crescente dalle mani di mercanti anche non autorizzati, che dettero vita ad un commercio di opere defraudate.
Così accadde anche al Cenacolo robbiano, attribuito a Giovanni, un tempo in San Francesco a Barga. Pietro Groppi scrive a proposito: “nel refettorio di questo convento vi era un bellissimo Cenacolo robbiano che io ho veduto. Ma nell’anno 1853 fu smurato e da ignota persona portato via e credesi venduto ad antiquari fiorentini”. Dopo un percorso viziato del quale non si conoscono tutte le tappe, questo Cenacolo, composto da quattro blocchi, giunse nel 1856 a Londra quando il museo Victoria & Albert, al tempo South Kensington, lo acquistò a non domino a Parigi per 104£, da un venditore del quale non fu trascritto il nome. Grazie al breve ma denso saggio di Gentilini (A Parigi “in un carico di vino”: furti di robbiane nel Valdarno) possiamo dubitare che anche il nostro bassorilievo “sia uscito dall’Italia per la via di Livorno dove più che negli altri porti doganali v’è facilità di eludere le disposizioni di legge”.
Già poco dopo la sua realizzazione, il modello dell’Ultima Cena realizzato da Leonardo divenne così celebre e apprezzato che fu studiato e imitato da moltissimi artisti. Quello nel Convento di San Francesco era custodito, incassato, sopra la porta in modo che potesse essere osservato da tutti mentre il pasto veniva consumato. La specificità di questa terracotta sta nella disposizione a specchio dei personaggi rispetto a quelli vinciani. Spesso ignorato dalla critica, questo dettaglio fa credere che Giovanni della Robbia non ebbe occasione di osservare l’originale, ma si poté confrontare soltanto con una riproduzione incisoria. Il dettaglio del cagnolino indica la paternità del modello utilizzato. L’incisione è infatti quella di Giovanni Pietro da Birago, del 1500 circa, la quale ottenne un successo incredibile nella diffusione tanto da essere utilizzata da artisti del calibro di Rembrandt. Giovanni Pietro, conosciuto anche come ‘Maestro del Libro d’Ore di Bona Sforza di Savoia’, vi aggiunse, oltre alla licenza epigrafica al centro, anche il dettaglio dell’animale, come un forte simbolo di fede e di misericordia divina. Il riferimento iconografico viene da un passo del Vangelo di Matteo (15, 21-28), in cui una donna pagana proveniente della regione della Cananea implora Gesù di liberare da un demonio la propria figlia. Il Messia dapprima la ignora e procede nel suo cammino, ma l’insistenza della donna si fa più forte e alla fine lui le dice: “Non è giusto prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”, ma lei subito gli risponde: “È vero, Signore […] ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Sfortunatamente anche questo pannello invetriato si aggiunge alla lista degli assenti.
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