Da bambini eravamo inseparabili. Abitavamo a pochi passi di distanza, nella Vecchia Barga, dentro Porta Macchiaia. Io venivo a Barga in vacanza e con Graziano passavamo l’estate insieme già da bambini. Suo nonno abitava in campagna, a Bugliano, e lui conosceva alla perfezione la geografia della zona e la dislocazione dei filari d’uva cogliona e del campo delle fragole. Per le castagne e il granturco sceglievamo invece le selve e i terreni intorno al cimitero, poi la sera accendevamo il fuoco per arrostire le pannocchie. Le mondine le faceva il suo babbo gli ultimi giorni di settembre, con la padella bucata nel camino di casa, e alla fine le spruzzava con del vino rosso. Le castagne del Baldo erano buone, ma significavano che l’estate era finita e bisognava tornare a Roma.
Graziano era allegro e vivace, e affrontava la vita con un entusiasmo contagioso. Io andavo da lui per fare merenda o, la sera, a vedere in TV Giochi senza frontiere, lui veniva nella mia piazzetta per giocare a pallone. Il calcio era una nostra grande passione, e la piazzetta diventò presto un punto d’incontro per tutti i bimbi del vicinato. Vi si svolgevano partite interminabili nonostante l’abete che vi stava piantato nel mezzo. Benché in possesso di un’ottima tecnica di base, Graziano prediligeva un gioco maschio e senza fronzoli. S’innervosiva con suo fratello Paolo, forse troppo lezioso e incline ai colpi di tacco, e a volte riprendeva anche me, che amavo il dribbling ed ero un po’ innamorato del pallone.
Per sé aveva scelto un ruolo da difensore, e il suo fisico gli consentiva di svolgerlo alla perfezione. Era già alto e ben piazzato. Aveva un anno più di me.
Il sabato pomeriggio venivano in piazzetta i ragazzi più grandi, e ascoltavano alla radio Bandiera gialla. A Graziano piaceva molto la musica. Amava Gianni Morandi e un po’ me lo ricordava, con quel ciuffo di capelli castani e le mani grandi. Cantavamo C’era un ragazzo… con il testo che parlava di una morte prematura e insensata, e anticipava i temi del ’68.
Nell’estate del ’69, vale a dire proprio cinquant’anni fa, fondammo la nostra squadra di calcio e la chiamammo Barga Vecchia. Andavamo a Tiglio a piedi per sfidare i locali nel loro campetto in mezzo al bosco, oppure a Castelvecchio, spesso in bicicletta. Ma le sfide più sentite erano con i temuti cugini del Giardino o del Sacro Cuore, sul campo dell’oratorio. C’era anche l’Ayala, il nostro goleador, e da lì in avanti, che ci chiamassimo Barga Vecchia o Fornacetta o Mexico ’70, il nucleo di base restava sempre lo stesso: Graziano in difesa, io a centrocampo e Ayala in attacco. Gli altri compagni erano selezionati con il criterio – piuttosto che della mera cifra tecnica – della simpatia e dell’amicizia, e ne risultava quasi sempre una squadra affiatata e irriducibile, in grado di prevalere anche contro compagini ben più accreditate. Lo spirito del Barga Vecchia me lo sono portato dietro in tutte le squadre in cui ho giocato o che ho allenato.
Graziano fu selezionato per uno stage a Coverciano, ma il pallone non era l’unico dei suoi interessi. Ne aveva tanti altri, come la pesca e i funghi, e ha anche cercato di trasmettermeli. Inutilmente, perché io ero proprio negato. Poi ci sono stati gli anni dei campeggi a Renaio con la Doli, anni indimenticabili e spensierati.
Cominciò a lavorare molto presto, e fece anche una breve esperienza all’estero. Aveva preso a frequentare ragazzi più grandi, il gruppo dell’adorata sorella Daniela (la Cacìna, che gli passerà poi il soprannome). Andavano a ballare al Ciocchetto e facevano le ore piccole. Io non amavo le discoteche, il calcio era la mia danza. A Roma giocavo e mi perfezionavo, e l’estate il Barga mi chiamava per le amichevoli, anche se ero giovane e non ero tesserato. A 17 anni così ho avuto modo di giocare contro il Genoa di Rosato e di Bruno Conti. Graziano era alla partita e mi aspettò dopo la doccia per farmi i complimenti.
Nel 1979, anno del mio primo campionato nel Barga, lo convinsi a svolgere con noi la preparazione estiva. Ma non era assiduo agli allenamenti. Il servizio militare aveva accentuato in lui l’insofferenza per qualsiasi forma di disciplina e di gerarchia, per quel poco di vita da caserma che si respira in una squadra di calcio. E anche per le divise, specie quelle nere degli arbitri, che sempre più spesso gli mostravano il cartellino rosso, colore che peraltro amava. Così non fu scelto per la squadra, e io ci rimasi molto male. L’anno dopo giocò con noi la sua ultima partita, in un torneo notturno in cui Giancarlo Antognoni si prestò a dare il calcio d’inizio e noi uscimmo in una sfortunata semifinale.
Lasciò per sempre il calcio. Dopo un breve periodo un po’ turbolento Graziano conobbe la Jo, compagna di una vita, e da allora ha fatto una vita ritirata, casa e lavoro. Usciva poco. A volte lo incontravo al Giardino, di solito la mattina presto, e si prendeva un caffè insieme. Era sempre informato sulle mie vicende di calciatore e poi di allenatore.
L’ho ritrovato quando ormai si avvicinava alla sessantina ed era già malato, e ho cercato di stargli vicino fino all’ultimo. Non era cambiato. Nonostante la malattia fosse progressiva e molto invalidante, lui riusciva a entusiasmarsi anche per un biglietto vincente del gratta e vinci, o per il menù del pranzo di Pasqua, o per un documentario sulla natura.
Una volta abbiamo guardato insieme in Tv una partita del torneo giovanile di Viareggio, Inter – Fiorentina. Lui tifoso dei nerazzurri e io della viola. Come accade non di rado, la Fiorentina ha perso ma per una volta ne ero felice, almeno avevo strappato un sorriso a Graziano e mi ero lasciato prendere un po’ in giro. Era un pomeriggio di febbraio, e la malattia gli avrebbe lasciato solo altri tre mesi di vita.
Al ricordo di Graziano ho voluto dedicare il mio ultimo racconto, Undici ragazzi, in uscita a dicembre. Una storia di calcio ma soprattutto di amicizia, che parla di amore per la buona tavola, per la musica e per i libri, ma anche di malattia, di morte e di destino, argomenti questi trattati – spero – senza retorica e con un un minimo di leggerezza. La storia di una squadra giovane e largamente rinnovata che, partita senza i favori del pronostico, stenta inizialmente ma poi riesce a trovare una grande continuità di risultati grazie a una straordinaria coesione e alla guida di un allenatore un po’ filosofo un po’ sognatore, ma preparato e dalle idee chiare. Undici ragazzi che remano uniti sempre dalla stessa parte, al di là delle diverse convinzioni politiche e problematiche personali, fino all’ultima decisiva sfida, quando un rigore nei minuti di recupero, rigore definitivo e senza appello, potrà decretare un trionfo sportivo o affossare le speranze di un’intera stagione.
Graziano è uno dei miei undici ragazzi, e l’ho voluto fotografare a vent’anni: sorridente, coraggioso, generoso, ribelle, anticonformista e innamorato della vita.
È così che me lo voglio ricordare.
Elisabetta
30 Novembre 2019 alle 13:12
Bellissimo questo articolo. Complimenti
leo
2 Dicembre 2019 alle 11:42
davvero un bravissimo a Paolo, complimenti….
Michele
2 Dicembre 2019 alle 17:01
Bello, bellissimo
Toccante come solo i ricordi belli possono essere.
Bravo Paolo
diego
11 Dicembre 2019 alle 11:47
Grande Mosca …… io ti ho sempre chiamato così il Mosca …….. sempre pacato e profondo. Non cambiare mai, un abbraccio