Alla scoperta della dama bianca

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Come tutti gli anni, a margine del Premio Giornalistico “Arrigo Benedetti”, pubblichiamo i testi vincitori della sezione riservata alle scuole superiori. Il secondo lavoro premiato è il testo di Alice Pini, studentessa dell’Istituto Alberghiero Fratelli Pieroni di Barga.

Alla scoperta della dama bianca

Ofelia, da Shakespeare a Guccini, un viaggio attraverso i secoli.

Ofelia, una delle prime eroine del drammaturgo inglese William Shakespeare, rappresenta uno dei  personaggi principali dell’opera teatrale “Amleto”.

Possiamo definire il dramma una “tragedia nella tragedia”: da una parte Amleto, diviso tra bene e male, tra un io codardo e uno audace; dall’altra Ofelia, divisa tra ragione e sentimento, volere e dovere, passione e follia.

Ma Shakespeare ci fa scoprire Ofelia attraverso il nostro punto di vista personale, delineandola ognuno a modo suo. Cosa fa Ofelia nell’opera? Ama Amleto, crede di non essere corrisposta, diventa pazza e si suicida. Ma è finita qui? Ofelia è solo questo?

Certo che no. Infatti, nonostante la sua presenza sia marginale nell’opera, le sue vicende riscuotono grande successo. Vivrà un periodo d’oro nell’Ottocento, eroina, icona dell’amore incompreso ed inespresso. Proprio in questo periodo la sua triste fine ci verrà cantata dal poeta francese Arthur Rimbaud.

Mentre con pochi e semplici versi Shakespeare ci svela il significato nascosto dietro la folle morte della giovane, Rimbaud riprenderà lo stesso fiume scuro a fare da contrasto con la pallida Ofelia e le sue candide vesti, che la rendono simile a un angelo Arthur Rimbaud, 1871 fluttuante nella corrente, a tramandarci quella malinconia che spezza l’alone mistico che avvolge la ragazza, facendola emergere per quello che realmente è: una donna. Solo una donna, piccola e triste, schiacciata dal peso della vita, dal suo volere e dal suo amore, creduto non ricambiato.

Ed è questo amore che la distrugge lentamente. Ma perché commiserarla? Il suo amore è forte e, anche se non corrisposto, è sempre amore. E non dovrebbe recarci felicità l’amore stesso nella sua purezza? Ed è per questo che dobbiamo amare Ofelia: ci insegna ad amare, a provare un qualcosa che non si ha paura di definire “giusto”.

Ma quello che colpisce di più è che anche Rimbaud porta Ofelia nel cuore, tanto che la vede ancora, la notte, come dipinta dai pittori, a cogliere i fiori che un tempo coglieva, a rivivere ogni notte nella morte e a rinascere, in ogni alba, in ogni donna, dalla giovane vergine all’anziana vedova, nel nostro cuore, destinata sempre a rimanere dentro di noi, ultima speranza rimasta a scaldare il vaso di Pandora, da dove è fuggito ogni male, e rimane solo Ofelia.

E quest’Ofelia rivive, forse per caso o forse no, esattamente un secolo dopo, quando nel 1970 un giovane Francesco Guccini canta per la prima volta “Ophelia”.

Ma cosa c’è in questa canzone? Il cantante ci descrive solo una scena, e non la impone, ma ci lascia con delle domande, domande senza risposta: cosa dice, cosa pensa, cosa sogna questa donna?

Del resto, è veramente difficile comprendere una donna così complessa, quando risulta già complicato comprendere noi stessi. Chi potrebbe immaginare quello che pensa, sulla riva del fiume, cantando, intrecciando fiori?

E pensa, alla vita e alla veglia, alla morte, al sonno, ed ecco, la riflessione di Amleto, essere o non essere, vivere o morire, vegliare o cadere nel sonno, ladro di pensieri e azioni.

Ma Amleto sceglie di vivere. Perché la vita può essere dura, può portarci a fare scelte che non vorremo fare, a prendere strade buie, che ci spaventano, ma nonostante tutto merita di essere  vissuta, e meritiamo di viverla.

Perché per un minuto di gioia, uno solo, vale la pena combattere in una vita di dolori e di paure.

Ma Ofelia non capisce. Nella sua vita non capisce come possa esserci ancora un solo attimo felice, senza Amleto, senza amore, cielo senza terra e Sole senza Luna.

Allora Guccini descrive solo ciò che gli occhi possono vedere cancellando l’alone di grigio evocato cent’anni addietro da Rimbaud, descrivendo nella notte un fiume, l’acqua verde, e i capelli di Ofelia a brillare come la Luna, con le stelle a rischiarare il firmamento. E ce la racconta, questa Ofelia, che cammina nel buio, con i fiori tra le mani, scalza, le braccia spoglie e il cuore nudo, e i capelli che volano si confondono con i veli bianchi del vestito, e la sua figura risplende di chiaro candore, come una dea antica, bellissima ed inarrivabile.

Sono questi i momenti di debolezza che viviamo: tutti quelli in cui non capiamo il nostro essere, ci sentiamo a pezzi, senza i pezzi che ci completano, in cui non siamo amati, non da chi vorremmo, o forse non lo capiamo. Ognuno ha la sua visione della vita, e questa era quella di Ofelia: vivere al solo scopo di donare amore e di riceverne altro in cambio. E se nel tuo unico scopo, il più importante, fallisci, non sei nessuno. Allora puoi anche morire.

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