Dopo venti minuti l’auto del comandante si ferma difronte a una villetta ordinata circondata da un piccolo giardino. I due scendono e suonano il campanello. Un uomo si affaccia alla finestra.
“Cosa volete alle sette della mattina? Chi siete?”.
“Carabinieri. Dobbiamo parlare con Pietro Campara. E’ lei?”, risponde il comandante.
“Si sono io”, risponde l’uomo.
“Allora ci apra per favore”, gli intima il comandante.
Dopo pochi istanti l’uomo, in vestaglia, è alla porta, mentre squilla il telefono cellulare del comandante.
“Pronto! Come? Ci sono feriti? Va bene, ho capito. Procedete come da istruzioni del GIS. Mi metterò in contatto con voi al più presto. Tenetemi aggiornato”. Spegne il telefono e si rivolge a Samuele.
“C’è stato uno scontro a fuoco nella grotta, l’unico ferito è il fuggiasco. E’ solo e armato, è scappato da un cunicolo. Si sospetta che si sia creato una via d’uscita”.
“E io cosa c’entro?”, chiede Pietro Campara.
“Non lo so ancora, si sieda per favore, dobbiamo parlare”, risponde il comandante.
I tre vanno in salotto e si siedono.
“Ebbene, lei è a conoscenza dei fatti della notte scorsa nella Grotta del Tempo?”, gli chiede il comandante.
“Ho sentito qualcosa, sì, ma non ne so niente”.
“Stia tranquillo, sappiamo che non è stato lei, dato che il fuggitivo ha appeno intrapreso uno scontro a fuoco in grotta”, lo tranquillizza Samuele.
“Allora perché siete qui?”.
“Conosce qualcuno che sa usare molto bene il fucile, che conosce la grotta e che ha un movente per uccidere? Suo figlio ha perso la vita in quella grotta”, dice il comandante senza mezzi termini.
Pietro inspira profondamente e si appoggia allo schienale della poltrona, impallidendo.
Nel frattempo, fuori dalla Grotta del Tempo, Ange sta salendo per la ripida parete nord. Ettokilo, sotto di lui, pattuglia tutta l’area coperta dalla vegetazione. Dieci agenti fanno altrettanto. Francesco perlustra alcuni anfratti nelle spaccature della parete, per rintracciare eventuali passaggi. Quando Ange arriva in cima, vede delle ginestre coricate macchiate di sangue.
“Qui! E’ passato di qui!”, urla alzandosi e voltandosi verso i compagni di sotto. “Fate il giro per il sentiero, fate in fretta!”, aggiunge gesticolando.
“Ho trovato il passaggio!”, grida al contempo Francesco, che sale velocemente lungo la parete. “Ci sono tracce di sangue anche qui!”, aggiunge affannato.
In pochi minuti tutti sono in vista di Ange, che si trova avanti una cinquantina di metri. Per terra, su un prato, ci sono vistose impronte di una sgommata e ancora tracce di sangue. Ettokilo preleva dalla tasca una pellicola trasparente, la fa aderire alle chiazze di sangue e preme. Poi la ripone in un apposito astuccio.
“Questo per la Scientifica, anche se non credo si tratti di un delinquente comune”.
“No di sicuro”, risponde Ange, “l’unica cosa certa e che sa maneggiare fucile e coltello, oltre a capirci di speleologia. Dai, seguiamo le tracce dell’auto”.
“Accidenti! Si perdono al congiungimento con la strada asfaltata”, esplode Ettokilo.
“E’ ferito, sanguina” risponde Ange. “I carabinieri hanno messo posti di blocco dappertutto, non ha scampo. Dovrà pur fermarsi: in una farmacia o in un pronto soccorso”.
“Io ho guidato per cinquanta chilometri ferito a una gamba, in una missione a Kabul. E questo è un duro!”
A casa di Pietro Campara, il comandante prosegue con l’interrogatorio.
“Mio figlio è morto la dentro, è stato un incidente, ma io non vado in giro a sparare alla gente…”
“Può dirci chi altro oltre lei è stato traumatizzato da questo evento?”, chiede con tatto Samuele.
“Ah”, mostrando un sorriso amaro, “mia moglie. Siamo andati in crisi dopo l’incidente. E mio fratello anche, da allora non ci parliamo. Era attaccatissimo a mio figlio. Non è sposato e non ha figli, così considerava il mio come se fosse anche un po’ suo. Lo portava ad addestrare i cani da caccia sui monti e lo portava in grotta con sè. Era per Michele un secondo padre. Non ha mai perdonato alle guide della Grotta del Tempo di non essere intervenute in tempo”, così dicendo l’uomo si commuove.
“Lei stia a disposizione, nel frattempo andiamo a parlare con suo fratello”, incalza il comandante.
“Non lo troverete. E’ partito per la Slovenia, per la caccia al cervo e per le grotte”.
“Ci dia comunque l’indirizzo di suo fratello”, dice il comandante “e qui c’è il mio numero di telefono. Mi chiami se lo sente, lo faccia!”. Uscendo gli porge un biglietto con il logo dell’Arma.
Dall’altra parte del monte una volante dei carabinieri si fa spazio tra un gregge di pecore che attraversa la strada. Il pastore tiene in spalla uno zaino e a tracolla un fucile da caccia. Cammina zoppicando tenendosi al bastone. La volante si ferma e ne scendono due carabinieri. Uno dei due si avvicina al pastore e gli chiede perché stia portando un fucile in spalla. Il pastore, scontroso come nel suo carattere, gli risponde che sono fatti suoi. Il secondo carabiniere gli si mette davanti, mentre il pastore lo scansa ed inizia a camminare più in fretta. Allunga il passo claudicando ed improvvisa una corsetta verso il centro del gregge.
“Fermati!”, impone il primo carabiniere.
Il pastore scala una scarpata con sorprendente agilità e scappa nel bosco. Alcune pietre rotolano, rallentando gli inseguitori. Vedendolo salire su per una mulattiera, uno dei due carabinieri spara in aria, intimandogli di fermarsi, ma il pastore non si volta, saltellando come un capriolo”.
“Andiamo dall’altra parte della strada!”, dice l’altro carabiniere.
“Pur che non salga su un auto e riesca a scappare prima che riusciamo a raggiungerlo”, risponde il primo.
Nel contempo il comandante e Samuele arrivano a casa di Antonio Campara.
Bussano. Non apre nessuno. Gli scuri sono chiusi. Il comandante guarda Samuele fisso negli occhi. “Siamo intesi che la porta era aperta, vero?”, gli chiede cercando uno sguardo d’intesa.
“Naturalmente”, risponde Samuele sorridendo. “Anche se ci vorrebbe il mandato…”.
Il comandante entra in auto e ne esce con un attrezzo: “non abbiamo tempo, è questione di vita o di morte”. Forza la porta ed entra. Samuele lo segue e chiude la porta dietro di sé. Accendono la luce. Davanti a loro un breve corridoio porta alla cucina e al salotto. Niente di strano. Tornano indietro e salgono la scala che conduce al primo piano. Entrano in una camera da letto. Tutto normale. Poi aprono la porta di una seconda camera: è piccola e confortevole. Intorno al letto sono appese fotografie di un neonato, poi di un bambino di circa un anno, poi più grande. In una fotografia plastificata, sono ritratti Pietro Campara accanto ad un uomo con un bambino in braccio.
“L’uomo col bambino dev’essere Antonio Campara”, osserva Samuele.
“E il bimbo deve essere Michele”, risponde il comandante.
“Cerchiamo nei cassetti”, dice il comandante.
Aprono il primo cassetto di un mobile di legno bianco: ne escono centinaia di fotografie del bambino. Su alcune c’è scritto “mio figlio Michele”. Avvolte in un nastro decine di cartoline della Grotta del Tempo sono barrate da una croce rossa tracciata con un pennarello. Sotto le cartoline un articolo di giornale sull’incidente nella Grotta del Tempo. La fotografia del bambino è plastificata.
“Questa potrebbe essere la riproduzione della stanza del bambino!”, esordisce Samuele.
“E se non fosse partito per la Slovenia. Se fosse uno psicopatico?”, chiede il comandante.
“Sì, potrebbe. Avvisiamo il GIS e torniamo dal fratello. Anche se non si parlano, non significa che Antonio non nutra affetto per il fratello. Nella foto sono ritratti insieme e sulle fotografie del bambino ha scritto che Michele è suo figlio. Si è verificato una sorta di transfert di paternità. Antonio si sente parte di una famiglia, loro due erano tutto il suo mondo. Chiude il cerchio plastificando le immagini”.
Squilla il telefono del Comandante. “Pronto? Come? E lo avete preso?”. Poi rivolto a Samuele: “il pastore è fuggito, portava un fucile da caccia a tracolla. E’ scappato sul monte ed ha raggiunto la strada asfaltata, da lì si è persa ogni traccia. E’ lui il nostro uomo!”.
“Non è lui, non perdiamo tempo!”, dice Samuele.
“E lei come fa a saperlo, dottore?”, risponde il comandante.
“Non sappiamo niente del pastore, invece di Campara ci siamo fatti un preciso quadro psicologico”.
“Se l’è fatto lei il quadro, a me interessano i fatti. Devo raggiungere il secondo posto di blocco. Se il pastore è salito su un auto, sua o di qualcun altro, dovrà passare da lì”.
Tag: Brunella Ponzo, Stalattiti Insanguinate, Ettore Petrilli, Francesco Lenci, Angelo Meschi, Samuele Forlini
Lascia un commento