Come tutti gli anni, a margine del Premio Giornalistico “Arrigo Benedetti”, pubblichiamo i testi vincitori della sezione riservata alle scuole superiori della Toscana.
Quest’anno il premio è andato a Matteo Rosellini del Liceo Scientifico “C. Lorenzini”, Pescia, classe 5B ed a Chiara Bracci dell’ ISIS “Leopoldo II di Lorena” di Grosseto.
Cominciamo dal lavoro di Matteo
Diciottesimo secolo: sta piovendo illuminismo su tutta Europa, attenzione attenzione sono pregati stregoni, maghi e fattucchiere di stare alla larga o quantomeno di non farsi beccare perché qui si inizia a combattere a colpi di ragione. E la ragione fa male. Sono i tempi in cui Kant scrive Sapere aude! E’ questo il vero motto dell’illuminismo! Esortando al raggiungimento di una metaforica età adulta, che in parafrasi si traduce in una piena consapevolezza delle potenzialità di cui un uomo può finalmente fruire, nel pianeta che da qualche anno ha incominciato ad orbitare attorno alla stella più luminosa che conosciamo. E’ la scienza che comanda: guai a chi la tocca e accidenti alla metafisica. Hanno fame, gli imparruccati del 1700: fame di concretezza, di risultati, di conferme. Sembrava tutto così giusto, tutto così dimostrabile: tutto così dimostrato. Col cannocchiale vedevi le lune di Giove; con le leggi di Newton ci facevi anche l’aceto. Parola d’ordine esperienza, parola d’ordine matematica, parola d’ordine evoluzionismo: è qui che iniziano le discipline in –ismo. Poi che strano: qualche secolo dopo quell’età adulta di cui parlavo prima fu messa in discussione da qualcuno. Ma quale età adulta? Io torno bambino, diranno prima della guerra gente come Pablo Picasso o Vasilj Kandinskij. Ci siamo stufati—dicono quelli del novecento—di formule a priori. Vogliono tirare fuori di nuovo il noumeno kantiano che i pragmatici avevano sbattuto in un cassetto e buttato la chiave. Sono gli anni, d’altra parte, degli esistenzialismi, questi: le rivoluzioni del proletariato possono aspettare (forse), perché prima devo capire chi sono. E come sto. Come faccio a pensare. Cosa è giusto: cosa non lo è. O cosa non lo è più. Perché l’unica legge immutabile è che tutto quanto cambia: si evolve. Nel bene o nel male? Si evolve e basta: il bene e il male ce li siamo inventati noi. Shopenhauer non può che arrendersi al wille zum leben, la volontà di vivere immensamente potente che agguanta gli uomini e li scarrozza in una strada tutta buche, tra noia e dolore: anche Leopardi la pensa così. Ma Giacomino vede la luce in fondo al tunnel, dopotutto: Leopardi il depresso per antonomasia, forse, ma anche no, a dirla tutta. Se Lucia ha detto no al colesterolo, Nietzsche invece ha detto un bel sì alla vita: vieni qui e travolgimi. Ma la vita che intende il baffone più famoso del 900 non è che… niente. Il nichilismo nicciano vuole produrre ubermenschen, “oltreuomini” che non si accontentino di sopravvivere come le tartarughe delle Galapagòs di Darwin, ma che in un mondo desolato si costruiscano il terreno fertile per esprimere il meglio di sé. La natura di Heidegger sarà bestand; sarà gestell: fondo e risorsa. Sì perché secondo lui la metafisica non è ancora morta: anzi! L’essere gioca a nascondino con gli uomini, a volte fa un ammicco e prova a rivelarsi: è lui che comanda. E in un mondo fatto di risorse, l’unica cosa che potevano fare gli uomini era… sfruttarle. La vita di Heidegger ci vede calcolatori senza scrupoli, volti ad approfittare di una natura violabile che ci mette a disposizione energia , per dominarla. Hans Jonas invece difenderà la natura proprio perché violabile: trattiamola come un soggetto razionale, dice. Prendiamoci le nostre responsabilità. Fu un successo a metà quello di scoprire che le connessioni della materia grigia del genere umano non avevano pressoché rivali sulle altre specie. Si venne a sapere di essere intelligenti: più di tutti gli altri, in potenza. Ma subito dopo, quando la creatività si trasformò per un motivo o per un altro in fredda furbizia questa partenza avvantaggiata si rivelò niente più che una tamarrissima scappatoia per evitare le noie del pensiero. E quando pensare diventò faticoso, il genere umano offrì the e biscotti alla stupidità che già da un po’ bussava alla porta. La legge universale non ce la dà nessuno, si va per congetture: ma sembra assai probabile che ormai ingegno e deficienza scandiscano all’unisono l’invisibile orologio del mondo che, puntuale e silenzioso, vigila ora con dolce affetto, ora con fretta funesta lo scorrere disomogeneo della linea del tempo. Perché quel grosso cervello come lo vede un piccolo cacciatore di parole buone sembra assomigliare ad un complicato hardware del pensiero: e proprio i pensieri allora sarebbero i driver del sistema operativo. Che per definizione sono messi in moto solo da… loro stessi, astraendo dall’implementazione ma scovando giusto la traccia logica generale, così da poter essere intercambiabili ora si e ora no. Ma l’errore probabilmente è nel considerare il vivere come propagato da un interruttore che per un po’ è sull’acceso e poi si spegne: in noi, pur partecipando abbagliati al moto caotico che ci è stato riservato in questa prateria di stelle lontane, c’è qualcosa in più che un’istintiva ed innata cieca obbedienza ad un algoritmo già scritto. Inutile chiedersi da dove venga il male: c’è e basta. E mi spingo oltre: è nato insieme all’universo, quando tutto ha scelto il proprio verso di percorrenza. Sta scritto nelle leggi della termodinamica, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma: si, ma questo “tutto” ha anche un costo. Nel mondo del micro col portafogli quantistico si paga in energia: e in mezzo a tutte queste molecole che vibrano, c’è un inevitabile dissiparsi di materia che non rende mai uguale al 100% il rendimento del sistema-mondo. Il male non ha limiti, ma è tremendamente stupido, non capisce nulla: per fermare l’impeto di una furia che rade al suolo fiducia e aspirazione ecco che acquistano un’importanza strategica il confronto, la tolleranza, l’intelligenza. Si perdono le parole molto più spesso di quanto non si dovrebbe: e la sfida è proprio questa, combattere contro la orwelliana newspeack fatta di reverenze e consensi che sembra riscuotere sempre più consensi. Non credo di stupire nessuno nel dire che esistono degli attimi che considerati rispetto a tutti gli altri hanno qualcosa in più: e l’hanno detto in tanti! Ma lo ripeto io, che non son come loro: che una vita senza riflettere allora non è più vita. Qui si parla di vita come flusso che scorre: non può essere altrimenti. Ma c’è modo e modo di farla scorrere. Signore e signori, prima o poi bisogna murare anche il mattone della maturità intellettuale: e se Sciascia diceva che esistono uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà, sarebbe bello, uomini, diventare per davvero per davvero: chi ha saputo riflettere, chi ha vinto la scommessa con gli aut aut e chi ha offerto una birra al wille zum leben.
Matteo Rosellini
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