Michele Placido e Re Lear. Due ore e mezza di puro e splendido teatro

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Al Teatro dei Differenti di Barga un pubblico particolarmente attento e sensibile ha accolto Michele Placido con il suo Re Lear di William Shakespeare, per la regia dello stesso attore e di Francesco Manetti. Il testo rappresenta l’unica delle grandi tragedie di Shakespeare in cui alla vicenda principale del re Lear con le sue tre figlie, si intreccia quella secondaria del Conte di Gloucester e dei suoi due figli, che inciderà fortemente sulla prima. Il Re, vicino alla vecchiaia , decide di dividere la Britannia tra le figlie ed i rispettivi consorti, pur mantenendo la sua autorità. Quando chiede loro di dimostragli a parole l’affetto che hanno per lui, la figlia minore, Cordelia, disgustata dalla sfacciataggine delle sorelle, dichiara che il suo voler bene al padre è uguale a quello che ogni figlia dovrebbe avere per chi l’ha generata e cresciuta, né più né meno. Lear adirato e deluso dalla figlia prediletta la disereda. Da qui inizia la pazzia del re che coincide con la tempesta della natura, così come quella della società, dei valori, della religione.

L’apparente integrità iniziale dei personaggi si sfalda quasi subito e la tempesta conclama lo spodestamento dell’autorità regale, la trasformazione di Kent da conte a servitore così come quella di Edgar, erede dei Gloucester a pazzo mendicante. Sarà proprio la follia a permettere al Re di capire la vera origine della natura umana. La tempesta è vista come una grande metafora di tutte le follie e gli sconvolgimenti insiti nella condizione umana. L’arte di Shakespeare di inserire la trama secondaria a quella principale fa sì che lo spettatore rimanga rapito dall’intreccio coinvolgente e dall’intensità dei personaggi, nonostante la durata dello spettacolo di due ore e mezza sia adatta ad un pubblico forse, e dico forse, più ricettivo.
Michele Placido veste i panni di un re padre padrone, la cui autorità si sfalda in una follia disarmante ed umiliante al tempo stesso, marcata ancor più dalla figura del “matto” (contaminato da un rap che strappa un sorriso, ma che non cade comunque nel banale) interpretato dal giovane Brenno Placido, uno pseudo-giullare di corte che rappresenta la coscienza in errore di Lear, l’unico che può permettersi di farlo riflettere sugli sbagli commessi.

Nel cast spicca la bravura di tutti gli attori, così precisi e gradevoli da sentire e da guardare, ma quella dei due fratelli, il bastardo ed il legittimo, interpretati rispettivamente da Giulio Forges Davanzati e Francesco Bonomo personalmente supera tutti gli altri. Il primo, anima dark sia nel look che nel ruolo, bello e tenebroso, quanto scaltro ed opportunista ed il secondo, la cui trasformazione in folle mendicante tiene tutti incollati sulla sedia, non solo per il coraggio di mostrarsi nella sua nudità fisica (cosa che non fa mancare qualche brusio in platea, forse più per apprezzamento che per pudore), ma per la padronanza di mettere in scena la sua vera nudità , quella interiore di figlio e fratello ripudiato ed ingannato nella sua metamorfosi struggente quanto coinvolgente, che comunque si riprenderà la sua rivincita nel finale.

Bravi tutti, scontato parlare forse di Placido, dovuto il riconoscimento della bravura delle tre figlie, ben collocate nei loro personaggi, classiche nel primo atto e dark nel secondo e dell’anziano Gloucester interpretato da Gigi Angelillo.
Il tempo scorre così come lo spettacolo che grazie al ritmo e alla bravura di tutti e quattordici gli attori sempre in scena per scelta registica, seduti in attesa di entrare su di un palco senza fondale fanno mantenere l’attenzione su tutto e tutti. La scenografia, troppo grande e maestosa per un palco piccolo come quello Dei Differenti, ha fatto sì che un terzo di essa non si sia potuta ammirare, difficoltà ancor più grande per un gruppo di attori che sono abituati a giostrarsi gli spazi in maniera diversa. Una grande corona abbattuta, simbolo del decadimento, raffigurante i volti di personaggi come Kennedy, Marylin Monroe, Bin Laden, “re moderni”, affiancata da macerie antiche e moderne a sottolineare l’attualità dei temi trattati. Nonostante le contaminazioni moderne o “pop”, come hanno sottolineato alcuni, possano far sembrare ad una prima osservazione che si cada nei cliché, come la trasformazione delle figlie vestite in abiti classici nel primo atto e molto aggressive in pelle nera nel secondo, o come quando si ostentano alcune scene di sesso con palpeggiamenti veri e propri, in realtà tutto non scende mai nel volgare e nello scontato.

È una storia che tutto sommato si ripete negli anni, la concretizzazione di situazioni della condizione dell’uomo che attraverso l’uso della parola, così caro a Shakespeare, ci proietta sì nella disgregazione dell’essere umano quanto nel suo riscatto, lasciandoci sul finale a meditare sulle parole del giovane Edgar: “A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve. I più vecchi hanno più sopportato; a noi giovani non sarà dato di tanto vedere o di vivere tanto.

Valeria Belloni

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