(Foto 2014 © Guido Mencari www.gmencari.com) – Dopo il bel testo di Martina Cassai, pubblichiamo anche il lavoro arrivato secondo
Al concorso Uno, nessuno e centomila, oggi, nel 2013”, progetto organizzato da Comune di Barga e Fondazione Toscana Spettacolo per avvicinare i giovani al teatro attraverso la scrittura.
L’idea del bando partiva dalla messa in cartellone al Teatro dei Differenti di Barga dello spettacolo “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello con Fulvio Cauteruccio del quale in apertura riportiamo una bellissima fotografia scattata dal fotografo Guido Mencari che ci ha inviato le sue immagini su Facebook.
Il concorso aveva lo scopo di coinvolgere docenti e studenti dell’ISI, l’Istituto Superiore d’Istruzione di Barga ed era pensato per offrire un’attività formativa per gli alunni delle classi quinte della Scuola Secondaria di secondo grado.
Come già riportato, Martina Cassai ha vinto il primo premio. La piazza d’onore è andata invece a Giulia Biagioni della IV B del Liceo Sociopsicopedagogico con il lavoro: “Come un fiore di ciliegio”.
Tra i benefit per i vincitori, appunto, quella di veder pubblicati i propri lavori su giornaledibarga.it.
Ecco quindi il testo di Giulia Biagioni
Ore otto del mattino, suona la sveglia.
Mi stropiccio gli occhi e mi stiro la schiena.
Sul comodino un bicchiere d’acqua e due pasticche di Xanax.
L’ideale per iniziare al meglio una giornata.
Mi alzo, mi vesto, vado nella sala grande con tutte le altre ragazze.
Di solito abbiamo gli incontri con gli psicologi, altrimenti stiamo sedute sul divano a guardare la tv e i dottori che passano.
Ore dodici: pranzo alla mensa e dieci gocce di Lexotan.
Il pomeriggio facciamo varie attività anche se di solito me ne torno in camera a dormire, altre volte invece le infermiere ci portano fuori a prendere una boccata d’aria fresca, “perchè fa bene”, ci dicono.
Ore diciannove: cena e una pasticca di Prozac. La sera è sempre una noia mortale, per fortuna il tempo con gli ansiolitici passa in fretta e alle dieci mi prendo la mia ultima dose giornaliera, uno Xanax e dormo fino al mattino.
Io sono Allison Riche, vivo nell’istituto psichiatrico di Brentwood e questa è la mia vita.
Sono Allison, Allison la pazza.
Ho sempre saputo di esserlo, voglio dire, era evidente che c’era qualcosa che non andava in me.
Fin da bambina venivo ignorata da tutti, ma proprio tutti, nessuno aveva voglia di parlare con me.
Crescendo ho sempre cercato di integrarmi in qualche modo, di pensare e parlare come i ragazzi della mia età, ma nessuno mi ha mai dato considerazione, non capivano i miei discorsi, certe volte non mi sentivano affatto. Era come se stessi pronunciando parole sorde, come se le mie corde vocali fossero spezzate e non riuscissero a produrre alcun suono.
Ero piccola, sola e non riuscivo davvero a capire.
Forse per il mio tono di voce un po’ strozzato, forse per i miei gesti così impacciati e goffi, forse per il mio sguardo perso nel vuoto, tanto che parevo essere su un altro pianeta.
In più, non sapevo fare nulla. Tutti erano migliori in qualcosa, io invece ero l’ultima ruota del carro.
L’inverno del ‘69 portò con sé molte novità, dopo il grande concerto di Woodstock i movimenti pacifisti contro la guerra nel Vietnam dilagarono in tutto il paese, Martin Luther King era il nuovo volto rappresentativo della lotta per i diritti umani e alla radio i The Doors scalavano le classifiche con il singolo “Hello, I love you”.
Insieme a tutti questi cambiamenti arrivò anche lei, Jenna.
L’insegnante la presentò il primo giorno di scuola del secondo anno, ricordo quel giorno come se fosse ora. Jenna aveva due bellissimi occhi color mare, i capelli scuri e cotonati come suggeriva la moda del momento, un vestito lilla e un sorriso stampato.
Accanto a me c’era un banchino vuoto, lei si sedette proprio lì.
Non aveva il libro di letteratura e così chiese di poter guardare con me.
Dopo tanto tempo finalmente qualcuno mi rivolgeva la parola.
Cominciammo pian piano a fare amicizia, cosa straordinaria per una come me che di amici non ne aveva avuti mai. Eravamo sempre insieme, durante le lezioni, durante la pausa pranzo, certe volte mi riaccompagnava anche a casa. Forse è stato l’unico periodo della mia vita nel quale mi sono sentita veramente parte di qualcosa di bello, finalmente avevo trovato qualcuno che provava piacere nel passare del tempo con me. Avevo addirittura smesso di balbettare a inizio frase, ero una persona serena, tutto sommato.
Poi un giorno arrivò quella batosta che fece precipitare la mia vita ancora più in profondità.
Quella mattina Jenna non c’era a scuola.
“Forse avrà l’influenza” pensai. Ma lei non si presentò l’indomani, né il giorno dopo, né quello dopo ancora. Erano passati quasi dieci giorni dalla sua assenza e non avevo ancora avuto sue notizie. Ero preoccupata.
Quando entrò in classe, la Professoressa Pimedy aveva l’aria di chi ha l’urgente bisogno di annunciare qualcosa. “Sono spiacente di comunicare che la sig.na Jenna Backley non frequenterà più questo istituto, lei e sua madre si sono trasferite in un’altra città.”
Quelle parole mi trafissero il petto con una tale ferocia che ancora mi sembra di sentirle, rimbombanti nella mia memoria.
Come aveva potuto andarsene senza nemmeno dirmi addio? Perché non mi aveva lasciato nemmeno un indirizzo? Ma soprattutto, come aveva potuto andarsene senza dirmi niente?
Non riuscivo a capacitarmi: tutti quei bei momenti trascorsi insieme, tutte quelle risate sembravano aver perduto ogni significato. Lei non mi aveva detto niente, mi aveva ignorata, dimenticata e si era portata via tutto, anche una parte di me.
Ancora una volta mi ritrovai da sola, con mille altri dubbi e con il cuore in macerie.
Passai l’estate in uno stato di apatia totale, in una sorta di disgusto e indifferenza verso tutto il mondo circostante. Guardavo con occhi ormai spenti le persone passeggiare per le vie.
Erano immersi nelle loro vite, il mondo era là dentro mentre io invece ero fuori.
La realtà non mi apparteneva e forse non era mai stata mia.
Abbandonata a me stessa, cercavo risposte alle mie domande, tentavo di farmene una ragione.
Non ci riuscii mai. Mi tormentavo a tal punto che una sera non ce la feci più.
In preda alla rabbia, spaccai ogni singolo oggetto all’interno della mia camera.
Mia madre sentendomi gridare salì di corsa le scale per raggiungermi, ma quando aprì la porta non fece a tempo a richiamarmi che ricevette il colpo dell’abatjour che avevo appena lanciato.
Ci portarono all’ospedale, mia madre se la cavò con sette punti di sutura, io invece dovetti restare nel reparto di psichiatria per ulteriori analisi.
Risultato? Dopo il racconto del mio gesto di follia descritto da mio padre ai medici, sono stata trasferita qui, nell’istituto Psichiatrico di Brentwood.
All’inizio è stata dura, ma poi ho trovato fra queste mura l’unico luogo in cui voglio stare.
Durante gli ultimi due anni ho scoperto la ragione per cui venivo sempre alienata dagli altri.
Non facevo parte del loro mondo.
Io non sono come loro, una persona normale.
Ho distrutto la mia stanza e colpito mia madre. Sono una ragazza violenta, squilibrata, non c’è posto per i pazzi in quella realtà.
Così eccomi qua, circondata da altre sette ragazze problematiche come me.
Alcune sono strane, veramente strane direi, ma voglio loro molto bene, noi ci capiamo.
“Allison ci sei? Dobbiamo andare, forza!” La voce squillante e irrequieta di Mandy mi fece sobbalzare.
“Sì arrivo!” le rispondo alzandomi.
“ Che bello! Oggi si dipinge! Non sei contenta anche tu?” saltellava come una bambina, sprizzava energia da tutti i pori, eppure il suo entusiasmo non mi contagiava.
“Sì sì, che bello” – feci un sorriso forzato mentre lei a passo svelto aveva già raggiunto l’ingresso della sala grande.
Mandy era una ragazzina di appena sedici anni con la quale condividevo la stanza da letto.
Le era stato diagnosticato il disturbo bipolare: a volte rideva senza controllo, altre volte si chiudeva in camera a piangere e non si alzava per giorni. Non aveva un equilibrio, era imprevedibile ma ormai sapevo come prenderla.
Entrai nell’aula già allestita con le tavole da disegno, le pitture e i pennelli posti sui vari banchi. Mi è sempre piaciuto disegnare, ma non ero mai riuscita a far più di una casina, un albero sbilenco e un sole che emanava raggi. Come in ogni altra cosa, ero completamente negata.
Ho cercato di ottenere l’esonero da questo “corso accelerato di pittura”, ma il direttore non aveva voluto sentir ragione. Obbligata a fare qualcosa nella quale non avrò mai la speranza di riuscire.
Non so far niente, io gliel’ho detto.
“Buongiorno ragazze” – era la Dr.sa Leyton – “Vi presento il Sig. Von Holk.”
“Grazie Annlise. In questo nostro primo incontro vi lascerò libere di esternare sulla tela tutte le vostre sensazioni, avete a disposizione vari strumenti e colori di ogni genere, tirate fuori le vostre emozioni e disegnate tutto ciò che vi passa per la mente. Bene, avete un’ora di tempo, buon lavoro!”.
Fantastico. Le mie sensazioni. E quali sono? Davvero, non lo so.
Sono così apatica che non mi sembra nemmeno di formulare pensieri.
La mia mente è come invasa da una folta nebbia che non lascia intravedere nulla.
Vuoto. Vuoto totale.
“Muoviti cretina” – mi sentii dare un colpo sulla schiena. Era Ellie, la sociopatica. – “ Dobbiamo finire questa merda di lavoro, devi farlo come tutte quante noi, che sei la reginetta del ballo? “
Minacciosa come al solito, si allontanò dal mio viso per tornare alla sua postazione.
Annuii come sempre decisi di cominciare a darmi da fare, era l’unico modo per non subire la vendetta di Ellie. Era una persona impossibile, trattava male chiunque fosse nel raggio di cinque metri, aveva una sorta di avversione verso gli altri e godeva nel torturare psicologicamente chi le stava accanto. Una ragazza aggressiva, terribilmente insicura.
C’erano veramente tanti colori da poter scegliere, così tanti che alla fine decisi di utilizzare il colore più banale di tutti: il nero. Nero come l’abisso che mi abita.
Presi un pennello di misura media, lo inzuppai nella tempera e poi nell’acqua.
Che cosa posso fare? Beh se non altro all’asilo gli alberi li sapevo fare, proviamo va’.
La prima pennellata, una riga verticale.
Poi come se fossi stata colta da un’ispirazione improvvisa, cominciai a spennellare, una linea, poi un’altra, senza rendermi realmente conto di cosa stessi facendo. Avevo realizzato un albero spoglio, nero come la pece, che si ramificava in alto, dando una sfumatura cupa al cielo.
“Tempo terminato, adesso passerò a valutare i vostri lavori!” Von Holk era rientrato.
Si mise ad osservare la stravagantemente tinteggiata farfalla di Mandy, le macchie rosse sangue di Ellie, il fiore di Lory, la cassa da morto di Diana.
Poi si fermò davanti a me, fissava il mio disegno con insistenza stressante, con gli occhi ingrottati e la mano che giocherellava con la barba.
– Ovviamente è disgustato- sentenziai. – Io gliel’avevo detto che non ero capace. E’ già tanto se ho finito nei limiti stabiliti, non mi sorprendo se è rimasto deluso.
“Davvero notevole Sig.na Riche, davvero molto interessante. Sa, se lei si esercitasse di più potrebbe anche vincere il concorso che si terrà ad Aprile. Bene ragazze, il nostro primo incontro finisce qui, ci vediamo la settimana prossima!”.
Ero allibita. Totalmente stupita e incredula, tanto che per un attimo tutto ciò che mi faceva sentire incapace era come evaporato. “Brava Allison!” Mi girai sgranando gli occhi, era quell’esaltata di Mandy insieme alle sue amiche. “Ottimo disegno Allie!” “Grandiosaaaaaaa!”
E se ne andò così com’era venuta.
Incredibile. Non si rendono davvero conto che io non sono capace. Come possono aver apprezzato quella spazzatura? Non. So. Fare. Semplice no? Chissà cos’hanno visto di tanto speciale. Era solo un albero secco. Punto.
Dopo la misera cena me ne andai in camera con lo stomaco in subbuglio e i pensieri che mi ronzavano nella testa. Quei complimenti mi avevano mandato in tilt.
Era come se in qualche modo avessero intaccato le mie certezze, come se queste amiche fossero diventate mie nemiche, nemiche della mia visione della vita e della realtà.
Se fossi una vincente probabilmente non sarei qui, nell’unica dimora che una giovane pazza può avere. Non avevo niente in più di loro, anzi, forse avevo qualcosa in meno.
Non ci volli pensar più. Mi misi nel letto mandando giù le mie “pillole della buonanotte” e crollai in un sonno profondo.
Al mio risveglio, fui chiamata nella stanza delle visite dalla psicologa Barbara Withman, avevo la mia seduta, neanche farlo apposta, ne avevo bisogno.
Entrai e raccontai alla dottoressa l’accaduto del giorno precendente, enfatizzando il fatto che quelle persone mi avevano attribuito una posizione che non mi rispecchiava affatto, le spiegai gesticolando tutta la mia frustrazione nel sentirmi trattare come la persona in gamba che non sono.
Annuì più volte e mi liquidò dicendomi solo “devi riconsiderare la possibilità che non tutto ciò che fai avrà un esito negativo e devi avere più fiducia in te e nelle tue capacità.”
Mi alzai dalla poltrona sbuffando, ora anche lei era contro di me.
Passai i tre mesi successivi accumulando sempre più apprezzamenti dalle mie compagne per le cose più banali, dal piegare gli abiti al riordinare la stanza, dal pettinarmi i capelli al modo di leggere le poesie nel corso di lettura.
Tutto ciò accadeva mentre le lezioni di pittura proseguivano, portandomi ogni volta a creare qualcosa di nuovo.
E più cercavo di dimostrare agli altri che non ero buona a nulla, più loro si meravigliavano dei miei elaborati, ogni volta sempre più bizzarri e caotici.
Ero arrivata ad un punto che non riuscivo più a comprendere niente.
Decisi di chiedere spiegazioni. Volevo convincere le altre ragazze a passare dalla mia parte.
Non che questo mi avesse portato a qualcosa, volevo solo che vedessero le cose così come stavano.
“Mandy!” – la chiamai.
Si girò di scatto, facendomi un sorriso a trentadue denti. Corse da me e per poco non cadeva, inciampando sui suoi stessi piedi.
”Dimmi! Dimmi! Che succede? Vuoi qualcosa?” squillò.
“Perché ti piacciono i miei disegni? Non vedi come sono storti? Sono solo macchie sparse senza una logica, non hanno niente di bello.”. Dissi convinta.
“A me piacciono! Mi fanno sentire felice! – alzò le mani al cielo.
“Ma i colori sono spenti, scuri, come può darti gioia una cosa così buia e priva di senso?
“E’ che sono profondi, anche se i colori sono tristi emanano tanta luce. E’ la stessa luce che vedo nei tuoi occhi ogni volta che ti guardo, per questo che sono così euforica! “– le si era illuminato il viso –
“Adesso vado a sentire un po’ di musica alla radio, voglio ballare! A dopo Allie!” .
Mi spiazzò. Per la prima volta dopo tanto tempo la speranza di essere come tutti gli altri si era riaccesa e bruciava come una fiamma viva. Faceva male.
Mi sentivo frastornata, ingenua e un po’ bambina. Esclusa anche da quella che credevo fosse la mia casa. Avevo bisogno che qualcuno mi credesse, che accettasse la realtà.
Ero tormentata da troppo tempo: le ansie e le paure salivano a dismisura, la notte non riuscivo a dormire e le medicine non bastavano più.
Decisi che dovevo affrontare la Dr.sa Withman, doveva prescrivermi nuovi farmaci.
Era l’unica soluzione.
“Allison, non posso prescriverti altre medicine, prendi già troppi ansiolitici, rischieresti di avere un’intossicazione. Te l’ho sempre detto, non ne avresti nemmeno bisogno. Potresti stare meglio, se solo tu lo volessi.”.
Non ci potevo credere. Ancora una volta le mie idee venivano calpestate da quelle altrui.
Volevo quelle medicine, non potevo dargliela vinta.
“Ma come devo farglielo capire? Io sono inutile, non so fare niente! Sono in questo centro perché sono malata! Questa è la mia casa, il posto in cui voglio vivere! Se fossi così sveglia come volete farmi credere voi, adesso non sarei qui, ma in mezzo alle persone normali!
Non potei fare nulla per evitarlo, le lacrime cominciarono a scendere dal mio viso, bagnandomi le guance. “Credevo mi volesse aiutare, invece non fate altro che riempirmi la testa di dubbi, mi avete fatto perdere tutte le certezze che avevo.” Terminai con il nodo alla gola.
Mi tremavano le mani.
Poi prese parola come mai prima d’ora, si tolse gli occhiali e appoggiandosi alla scrivania mi disarmò così:
“Allison, sai che sono sempre stata contraria al tuo internamento nell’istituto, mi sei sempre sembrata una ragazza intelligente, ma tuo padre insistette nel dire che eri instabile e bisognosa di cure, che temeva per la tua vita e per quella di tua madre. Dovetti acconsentire a farti entrare.
Non penso che tu avessi voluto tirare la lampada contro tua madre di proposito, penso che stessi solo cercando di sfogare il dolore che ti tormentava da anni. Tu avevi bisogno di buttar fuori tutte le tue emozioni, avevi bisogno di te stessa allora così come ne hai bisogno adesso.
Sei ancora qui perché ti ostini a considerarti pazza, quando in realtà non lo sei. Tu non sei pazza Allie, vedi solo quello che vuoi vedere. Non ti accorgi delle grandi qualità che hai perché invece di mostrare agli altri ciò di cui sei capace sprechi le tue energie nel dimostrare a loro che non sai fare niente. Devi smettere di ritenerti inutile, forse non te ne accorgi ma tutti ti guardano con ammirazione. Sei la più grande e le ragazze ti guardano come un modello a cui ispirarsi, le sento parlare di te e certe volte provano pure ad imitarti, ma sei così presa dal personaggio che vuoi rappresentare che non te ne accorgi nemmeno.
Sono del forte parere che potresti uscire da qui anche subito, se solo tu vedessi la persona che sei e che tutti noi vediamo.
– La osservavo, con gli occhi gonfi pronti a versare cascate di lacrime, pietrificata da quelle solenni frasi. Non mi sentivo così dal giorno in cui seppi della partenza di Jenna.
Come un vaso stracolmo che trabocca qualcosa dentro di me si mosse, e tutte le idee che mi ero costruita con tanto impegno si frantumarono al suolo, mettendomi in ginocchio.
Fu come un battito d’ali, istintivamente, scappai.
Corsi verso la porta principale, e mentre le infermiere urlavano il mio nome accelerai la falcata e mi lasciai tutto dietro, attraversando i giardini del parco di fronte.
Mi nascosi nella cavità di un albero per non farmi trovare, sentivo le voci di chi mi cercava, si erano diretti per altre vie, non mi avrebbero trovata.
La pioggia si abbatteva violenta sul terreno, avevo ormai gli abiti zuppi e sporchi, i capelli bagnati.
Anche il cielo quella notte piangeva.
“Come mi sono ridotta” pensavo.
“Se penso che quello che ha detto la psicologa non sia vero, perché allora sto così male? Perché non sono riuscita a convincerla della mia opinione? Perché tutti mi fanno complimenti?”
E se fosse stato vero? Se fossi realmente rimasta accecata dalle mie convinzioni? E se quella che credevo fossi io in realtà non era altro che una maschera? Una maschera per difendermi, per proteggermi da ogni illusione.
E perché no.
Avevo passato così tanto tempo a screditarmi che non mi ero resa conto che bastava solo crederci.
Crederci un po’ di più. Forse qualcosa di buono l’avevo anch’io, dopotutto.
Forse quei complimenti erano sinceri, forse davvero potevo essere speciale anch’io.
Una nuova considerazione stava nascendo e continuò a fluttuare nella mia testa anche durante quella notte, trascorsa dentro quell’albero trovato per caso.
La mattina seguente mi svegliai con il corpo indolenzito.
Mi ero quasi dimenticata di essere dentro una pianta.
Mi affacciai fuori dalla cavità, doveva essere mattina, a giudicare dalla luce.
Guardando l’orizzonte si poteva scorgere il sole che irradiava la campagna, e sopra i miei occhi i rami dell’albero carichi di meravigliosi fiori di ciliegio.
Una sensazione di benessere pervase il mio corpo. Non mi ero mai resa conto che il nostro parco avesse delle piante così belle, non me ne ero mai accorta. Forse era questo che la dottoressa cercava di dirmi.
Pensandoci su, forse sono proprio come i fiori di quest’albero che hanno combattuto la tempesta.
Nonostante la pioggia incessante, sono rimasti attaccati alle proprie radici e sono sbocciati con il sole del mattino, più belli e profumati che mai.
Non è vero che l’albero è spoglio, cupo e scheletrico, quell’albero era ricco di germogli e di linfa vitale, era armonioso e vivace, elegante e particolare, era rigoglioso ed io non me ne ero mai accorta. Prima di allora.
Adesso avevo tutto più chiaro. Quella clinica, la mia “casa”, non era altro che il rifugio nel quale mi ero adagiata per sfuggire alle pressanti richieste del mondo reale.
Non possiamo ritenerci pazzi solo perché non abbiamo i mezzi per aiutarci.
Non dobbiamo colpevolizzarci, ne rifiutare ogni genere di prova.
Dobbiamo batterci, combattere con le unghie e con i denti, dobbiamo credere, credere che tutto sia possibile, e provare, provare, fino a che non riesci.
Mi sentivo al sicuro lì, in mezzo a quelle giovani donne che mi facevano sentire così “normale”, ma adesso che conoscevo la verità, quella vera, non potevo più restare.
Nascondersi non aveva più senso, dovevo buttarmi, impegnarmi per inseguire i miei sogni, pormi degli obiettivi, costruirmi un futuro migliore. Una vita vera, quella che non avevo mai vissuto.
Non puoi rinunciare a vivere se la vita vera non sai nemmeno che cosa sia.
M’incamminai con un sorriso ancora sporca di fango verso l’istituto.
Adesso sapevo che cosa fare.
Quando bussai alla porta tutti mi accolsero con grande sollievo, le ragazze (specialmente Mandy) mi abbracciarono forte rincuorate dal mio ritorno. Il loro affetto e il loro calore mi avvolgeva, non avrei mai pensato di poter mancare a qualcuno, avevo torto sin dall’inizio ma visto quello che ho ottenuto, certe volte è bello anche sbagliare.
Lasciai l’istituto dopo una lunga chiacchierata con la Withman che acconsentì al mio rilascio e con la partecipazione alla premiazione del corso di pittura.
E vinsi. Io, proprio io, avevo raggiunto il primo premio, la vetta più alta.
E’ proprio vero che se ci credi fermamente ogni cosa andrà per il verso giusto.
Salutai le ragazze non con un addio, ma con un arrivederci fatto di abbracci e di recapiti telefonici, nella speranza di poterle rivedere fuori di lì, magari per una tazza di caffè.
Erano problematiche ma erano mie amiche, e non le avrei mai dimenticate.
20 anni dopo
Camminavo per la via a passo svelto per paura di perdere l’autobus, nella via che un tempo avevo percorso molto spesso. Alla fermata avevano costruito di recente una piccola tettoia e messo una panchina, seduta su di essa c’era una signora dall’aspetto familiare.
Mi sedetti accanto a lei, incuriosita da quei lineamenti che mi parevano già noti.
Tirai fuori un libro dalla borsa e iniziai a leggere mentre aspettavo l’arrivo del mezzo.
Sentivo i suoi occhi su di me.
“Allie, sei proprio tu?” – pronunciò la sconosciuta a bassa voce.
La guardai. Occhi azzurri, capelli scuri. Un tuffo al cuore, Jenna.
“Jenna..? “ – risposi impietrita, sgranando gli occhi.
Sorrise in quel modo infondibile che l’ha sempre distinta, mi abbracciò forte.
“Non ci posso credere, sei proprio tu! Non sai quanto ho provato a cercarti!” – sembrava sul punto di piangere.
“Tutto questo tempo.. Sei sparita senza lasciar traccia, non sai quanto avrei voluto salutarti, ma perché non me l’hai mai detto? Non l’ho mai capito”- Finalmente potevo dirglielo.
Sospirò: “Dopo la morte di mio padre mia madre era come impazzita, mi trascinava di città in città senza lasciarmi il tempo di ambientarmi e farmi degli amici, un giorno eravamo in un posto e la sera mi ritrovavo di nuovo a far valige. Non mi lasciava fare nulla, ero come un burattino nelle sue mani. Avrei voluto chiamarti, non sai quanto.” – Vedevo la tristezza del ricordare nel suo sguardo.
Sei sempre rimasta nei miei pensieri, Allie” – finì.
“Anche a me sei mancata.” Sorrisi senza aggiungere altro.
Dopo tutti questi anni passati nell’incertezza, adesso di una cosa sono sicura.
Non tutto ciò che vediamo corrisponde con la realtà.
Non dobbiamo dare niente per scontato, altrimenti perdiamo di vista ciò che è davvero importante.
Noi stessi.
“Beh io devo andare in centro, ti va di venire con me a piedi? Magari ci prendiamo qualcosa al bar e mi racconti un po’ di te! Che ne pensi?” – chiese speranzosa.
“Ma certo, non vedo l’ora.” – esclamai.
E ci incamminammo così, in quella via che una volta percorrevo ogni giorno, passando davanti alla clinica che mi aveva accolta nel mio periodo di lucida follia, attraversando quel parco che mi aveva aperto gli occhi mostrandomi il lato buono di ogni cosa.
Gli alberi erano fioriti come sempre, e questa volta lo ero anch’io.
Ero sbocciata, come un fiore di ciliegio.
Elaborato di Giulia Biagioni
Classe quarta B Liceo delle Scienze Umane
Isi Barga
Tag: teatro, concorso, giulia biagioni, fondazione toscana spettacolo, stagione di prosa, cauteruccio, uno nessuno e centomila, pirandello, guido mencari
Lascia un commento