Peppino Impastato: chi era, cosa ci ha lasciato

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Il 9 maggio 1978 fu un giorno terribile per l’Italia. Tutti coloro che a quel tempo c’erano si ricordano dov’erano nel momento in cui seppero la notizia: dopo 55 giorni di prigionia veniva ritrovato in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, in una Renault 4 di color rosso, il corpo dell’Onorevole Aldo Moro.

Le Brigate Rosse avevano assassinato il Presidente della Democrazia Cristiana. Gli anni di piombo raggiungevano il suo punto di non ritorno. Ma in quel giorno accadde anche un altro fatto importante. Un’altra morte che però, ovviamente, si perse nel mare degli aggiornamenti da Roma. Si trattava della tragica scomparsa di Giuseppe Impastato, Peppino a cui domani sarà dedicato, grazie all’Amministrazione Comunale di Barga, un parco in Piangrande vicino alla via dedicata a Gino Bartali.

Peppino lo trovarono nella notte sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.
Trovarono i suoi resti. Preso, picchiato, stordito, lo avevano messo sulle rotaie su una carica di tritolo. Il buio della notte siciliana era stato illuminato violentemente dall’esplosione, il silenzio squarciato dal boato della detonazione. Della sua testa non trovarono nemmeno briciole. Un fatto che come spiega Salvo Vitale, uno degli amici fraterni di Peppino “lascia pensare che gli abbiano anche ficcato un candelotto di dinamite in bocca, per dire che aveva parlato troppo”.

Già, parlava troppo. Parlava tanto in una città troppo piccola: quella Cinisi in cui era nato e vissuto e in una Sicilia, nella quale si ostinava a rimanere, bella e terribile.

In un primo tempo dissero che era morto mentre cercava di fare un attentato terroristico: “quel comunista” di Impastato era saltato in aria vittima del suo stesso atto criminale, poi dissero che si era suicidato così, in un gesto “esibizionista”, era sempre stato alla fine strano quel giullare, dissero alcuni.

Ma la verità era un’altra: “Era tutto pianificato”, disse all’Antimafia l’allora commissario della Digos, Alfonso Vella, arrivato a Cinisi quando i carabinieri stavano già smobilitando tutto dal luogo del reato. Peppino era stato ucciso volutamente a seguito di un piano studiato a tavolino con una ferocia e una violenza incredibili.

Ma ai suoi assassini (mandanti, esecutori, complici, omertosi) non bastò aver mandato in mille bricioli il suo corpo esile di giovane, no: volevano ucciderlo anche una seconda volta: cancellandone il ricordo. Per più di vent’anni ne calunniarono la memoria, ne ridicolizzarono e sminuirono l’opera. Ma non ce la fecero. Infatti, grazie al costante impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia, degli amici, e del Centro Siciliano di Documentazione (che successivamente venne intitolato proprio alla memoria di Peppino) si arrivò, lentamente, con molti, troppi anni di ritardo, alla verità.

Già nel 1984, grazie al lavoro del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici il Giudice Antonino Caponnetto riconobbe l’origine mafiosa dell’omicidio, ma non riuscì ad accertare colpevoli materiali o mandanti, attribuendo il gesto ad ignoti. Solo l’11 aprile 2002 fu condannato all’ergastolo il boss mafioso Gaetano Badalamenti quale mandante dell’omicidio.

Gaetano detto Don Tano era amico del padre di Peppino, Luigi mentre una delle sue sorelle aveva sposato Cesare Manzella. Peppino nato nel 1948, era cresciuto in questo ambiente: omertoso e asfittico. La rottura ideologica col padre arrivò presto, quando era adolescente. Infatti Peppino non era un adolescente qualsiasi. Nel 1965 fondò il foglio L’idea socialista e aderì al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.

A vent’anni lottò e manifestò, fianco a fianco, con i contadini che subirono l’esproprio delle terre per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi.

Spiega il fratello Giovanni: “noi l’abbiamo considerato l’erede di quel Movimento contadino degli anni 40 che portava avanti la battaglia per la legalità. Quel Movimento contadino che fu sconfitto dalla Mafia e brutalmente represso dallo Stato (credo che la strage di Portella delle Ginestre possa essere considerata la prima strage di Stato). Ecco, credo che Peppino fosse l’erede di quel Movimento, e contemporaneamente un pioniere di nuovi sistemi di lotta”.

la sua lotta passava, infatti, attraverso la Cultura. Nel 1975 costituì il gruppo Musica e Cultura e nel 1976 fondò Radio Aut. Una radio libera, autofinanziata, senza padroni, come ce n’erano tante a quell’epoca. Quella radio non mandava solo “canzonette”, no, dava “fastidio”, parecchio fastidio. Era come il suo creatore: parlava assai. Faceva pensare la gente, la faceva riflettere, portandola a una maturazione e lo faceva attraverso la risata, la comicità, la satira. Programma di punta era “Onda Pazza”, una rubrica settimanale satirica in cui Peppino ed i suoi amici immergevano la realtà del “mondo piccolo” di Cinisi in un ambiente che sfiorava l’assurdo ma in cui erano comunque ben percepibili, per chi li conosceva, nomi e fatti; così Gaetano Badalamenti diventava Tano Seduto ed il Sindaco Gero di Stefano diveniva Geronimo Stefanini, grandi capi di Mafiopoli (la soleggiata e ridente Cinisi, ovviamente).

Accanto all’impegno nella radio proseguì l’attività con Lotta Continua e poi Democrazia Proletaria. Proprio tra queste fila si era candidato alle elezioni. Decisero allora che la misura era colma: doveva stare zitto. Per sempre.

C’erano quasi riusciti ma alla fine hanno vinto la Verità e la Giustizia. Grazie ai semi che ha lasciato e che hanno raccolto in (pochi) valorosi. Come il fratello Giovanni.

Quando toccò a lui “lottare contro la mafia” si accorse che lottarvi contro era come lottare contro se stesso: “è come lottare contro un modo di pensare, di vivere… Contro una forma mentis che è nostra, perché la cultura mafiosa è profondamente radicata dentro di noi. Quando dico questo ovviamente non voglio certo intendere che siamo tutti mafiosi, per carità. Intendo dire che quando io cominciai la mia lotta sentii una profonda lacerazione. La nostra rottura (mia e della mia famiglia) non è stata una negazione di affetto nei confronti di nostro padre, per esempio, ma un modo di negare decisamente quella che era stata la sua scelta, che era fatta di schiavitù e di asservimento alla mafia. La nostra fu una scelta di democrazia e di civiltà, ma anche e soprattutto la scelta di uomini liberi, che non volevano più essere asserviti”.

Giovanni da anni porta avanti la sua opera di lotta e memoria. Insieme alla madre fece diventare la sua casa una sorta di museo. Nel 2000 il grande regista Marco Tullio Giordana realizzò un film di intensa bellezza: “I Cento passi”, opera vincitrice di vari premi che contribuì a far conoscere al grande pubblico la storia di Peppino. Le visite alla casa museo si moltiplicarono. A tutti i visitatori la madre non si stancava di ripetere: “State attenti, occhi aperti, il futuro siete voi. Tenete la testa alta e la schiena dritta”.

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