Mentre guidavo diretto a Sillano (LU) ho ripensato alle interviste fatte qualche anno fa nell’ambito di un progetto sui paesaggi identitari della Garfagnana. Con una collega agronoma ricercatrice presso la Scuola Sant’Anna di Pisa incontrammo un po’ di persone, per lo più anziani, in cerca dei paesaggi che hanno maggior valore per la comunità. Lo stesso lavoro era in corso nella vallata di Soraggio, a Sillico e Trassilico. Ovunque la memoria delle persone, spesso il loro cuore, ci descrivevano con un mix di nostalgia ed orgoglio elementi di paesaggio e di vita contadina in cui la pastorizia, la selvicoltura e i lavori legati alle terra occupavano un grande spazio. Ovunque c’era chi, nel campione di persone che abbiamo incontrato, non escludeva un ritorno a certe pratiche, a certe forme di economia. Sillano, però, ci sorprese.
Sillano sembrava essere un luogo, una piccola costellazione di comunità che ad un certo punto aveva chiuso con greggi, pastori, carbonai e legnaioli. Molti se ne sono andati, salvo tornare da pensionati. Altri sono rimasti sul posto cercando impieghi moderni e meno impegnativi e l’agricoltura residuale è davvero poca e fondamentalmente slegata dagli animali. Non solo Sillano, ma l’intera vallata. Ricordo il contrasto tra i racconti legati alla Via dell’Alpe che da Dalli Sotto conduce all’Alpe di Dalli per poi unirsi alla strada che un tempo portava al Passo di Pradarena e il presente. Quella che un tempo fu un’importante arteria durante la transumanza rimaneva a testimoniare tempi duri, niente più. La comunità della vallata di Sillano sembrava aver chiuso con quel passato, quasi come si sbatte la porta in faccia ad un amico traditore.
Intanto in un giorno di pioggia destinata a trasformarsi in neve, assorto in questi pensieri, ho trascinato la mia ingombrante auto gialla di fronte al monumento ai caduti di Sillano. Lì ho incontrato Francesca Panini. Un sorriso raggiante che galleggia su un mare di opportunità e sogni: così la definirei dopo averla conosciuta.
“Dopo aver frequentato il liceo scientifico” – ha esordito nella nostra intervista – “mi sono iscritta all’Università di Pisa e seguendo una delle mie passioni più grandi mi sono laureata alla facoltà di Lettere moderne… ma molto spesso quando si è convinti di aver intrapreso la strada giusta ecco che la vita stravolge i tuoi piani e ti chiede di rimetterti in gioco di nuovo partendo da zero con un progetto che ti prende e ti affascina ancora di più e che non ha nulla a che vedere con ciò che sei diventato fino a quell’istante in cui scatta la nuova scintilla… e così è successo a me”. Già, deve essere proprio così perché di lì a poco mi trovo con gli scarponi immersi nel fango a vagare tra campi nei quali sono stati seminati grano e farro. La pioggia è incessante e impregna tutto, ma non intacca la convinzione di Francesca. Mi mostra dove farà l’orto, poi mi accompagna verso Capanne di Sillano dove la pioggia si mescola alla neve cadendo sul campo dove l’estate scorsa ha coltivato i fagioli e il formentone (si, il granturco o mais).
Mentre ci muoviamo alla scoperta della sua azienda le chiedo perché si dedicata all’agricoltura. “Per poter dare un senso alla mia storia” – mi dice – “devo fare un salto nel passato quando i miei bisnonni dettero inizio al loro sogno di veder nascere su questa bellissima vallata un albergo. I tempi erano duri, le difficoltà molte e apparentemente insormontabili ma con tanto entusiasmo e fede riuscirono a dar vita al loro sogno”. Sorride e prosegue incessante come la pioggia. “Oggi, terminati gli studi, forte di una tradizione che mi porto dietro e che sento profondamente radicata in me, sento che quello che era il loro sogno è diventato un po’ anche il mio… Così ho deciso di lanciarmi in una nuova sfida: fare dell’albergo dei miei nonni, un agriturismo che sappia esprimere al massimo i sapori, i profumi, i colori e le tradizioni della mia terra ma soprattutto che mantenga in vita la passione e l’amore che mi sono stati trasmessi per questa attività”.
I tempi sono diversi e ciò che fu un albergo sarà parte di qualcosa di più moderno, cioè un agriturismo, ma Francesca sembra avere le idee molto chiare: non le interessa lo stereotipo dell’agriturismo da cartolina in cui non può mancare la piscina né qualche confort da cui gli ospiti non riescono a separarsi quando lasciano casa per una vacanza. “L’agriturismo La Genziana” – così Francesca ha deciso di chiamarlo – “deve essere un ambiente caldo, accogliente, deve poter regalare emozioni forti ed esperienze entusiasmanti, deve mostrare le tante piccole bellezze che la natura ci offre e che molto spesso ignoriamo”. Ormai è un fiume in piena che mi travolge con passione ed emozione. “Vorrei che i miei ospiti mi ricordassero per avergli regalato un’esperienza di vita autentica e ricca di valori che ormai abbiamo dimenticato ma che vivono ancora in ognuno di noi”, mi dice radiosa. “Vorrei che potessero provare l’emozione che ho provato io quando per la prima volta ho munto una delle mie pecore e ancor più quando ho scoperto con i miei occhi e con le mie mani che quel bene prezioso che è il latte poteva realmente trasformarsi in qualcosa di ancor più gustoso: il formaggio”.
Non abbiamo quasi il tempo di parlarne che mi trovo a scendere il tratto iniziale di una delle “Vie della Contessa” per poi abbandonarla e proseguire per una strada trattorabile a tratti più simile ad un torrente che ad una strada. Il gruppo è cresciuto: sono con noi anche il padre di Francesca e il fidanzato. Quando entriamo nell’edificio che ospita le 7 pecore di razza garfagnina mi convinco che anche Luigi, il padre di Francesca, si sta mettendo in gioco aiutando il progetto della figlia. Per lui è quasi un riscatto, una sorta di urlo liberatorio che lo svincola da quella chiusura nei confronti del passato. Le sette pecore (o sono cresciute fino a nove?) sono lì che aspettano. Arrivano mangime e attenzioni, inclusa una breve mungitura. “Sono poche” – mi dice Luigi – “ma è solo un punto di partenza”. Chiedo, memore di quelle interviste fatte qualche anno prima, quante altre pecore di quella razza esistano nella vallata. “Nessuna” è la risposta lapidaria. “Nessuna pecora” probabilmente è la risposta giusta.
Il meteo è davvero ostile e dobbiamo rinunciare a salire ai Casini di Corte dove l’anno scorso Francesca ha coltivato le patate. Non mi va poi così male perché poco dopo sono seduto ad una tavola imbandita dove mangio la polenta fatta col formentone (il granturco) coltivato da Francesca nei mesi più caldi dell’ultimo anno. E’ lì che il fidanzato di Francesca mi racconta il sogno nel sogno: le sue competenze di ingegnere serviranno per dare all’agriturismo del futuro un impronta di forte sostenibilità ambientale. Capisco che i locali di quello che fu l’albergo dei nonni nel sogno/progetto di Francesca sono solo una tappa intermedia e che le cose evolveranno. Certi sogni, come si sa, non si raccontano per evitare di comprometterne la percezione del sognatore.
Riparto alla volta di Lucca col calore dell’ospitalità che mi riempie il cuore e con la convinzione che quelle 7 pecore non saranno solo l’inizio di un sogno personale di una ventiquattrenne ma l’inizio di un’inversione di tendenza. Quelle sette pecore toglieranno il velo sotto il quale è stato celato un certo passato per restituire ai giovani di questa valle nuove opportunità. Se avessi dubbi, questi vengono spazzati via dal testo di una e-mail che ricevo qualche ora dopo. “La vita” – mi scrive Francesca – “se è vissuta con audacia e con dedizione diviene una fabbrica di opportunità e di sogni che bisogna saper afferrare al volo e coltivarli per poter arrivare un giorno a vederli realizzati”. Parola di Francesca. E io le credo.
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