Quel “Gran rifiuto” che non fu fatto da Celestino V

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Si parla molto, in queste ore, dopo la decisione inattesa di Benedetto XVI di lasciare l’incarico di Vescovo di Roma e capo della Chiesa cattolica, del “gran rifiuto” fatto da Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, eremita che pochi mesi dopo essere stato eletto papa abdicò. In tanti, tantissimi citano il famoso passo del III canto dell’Inferno in cui Dante senza nominare il personaggio in oggetto afferma: “Vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto”.

A ben vedere, però, probabilmente, non si tratta di Celestino V, bensì di Ponzio Pilato. Una tesi che era stata portata avanti da Giovanni Pascoli che se ne occupò, in particolare, come ci suggerisce il professor Umberto Sereni, in un articolo apparso su Il Marzocco del 6 luglio 1902, e poi ripresa da alcuni (non molti, a dir la verità) esperti nel corso degli anni. Amerigo Iannone in un articolo su Altro Molise ricorda il compianto storico abruzzese Giovanni Iannucci, che sull’argomento ha pubblicato diversi libri in proposito.

Secondo costoro colui che fece il “gran rifiuto” è Pilato, perché si rifiutò di giudicare Gesú. Una rinuncia al papato si potrebbe sempre ripetere. Non quindi “un” gran rifiuto come quello che potrebbe fare un pontefice ma “il” gran rifiuto fatto dal console romano, atto unico e irripetibile.

A conferma della tesi il fatto che nella “Commedia” non si parla mai di Pilato (a parte una citazione a proposito di Filippo il Bello, definito “il Nuovo Pilato”) mentre compaiono tutti i personaggi, anche quelli minori. Possibile che il Sommo Poeta si sia dimenticato di un personaggio così fondamentale nella storia di Cristo e in quella dell’umanità?

E poi, è mai possibile che Dante fosse tanto perfido da collocare all’inferno Celestino V solo perché, a causa della sua abdicazione, era salito al soglio pontificio Bonifacio VIII, che Dante non amava? È possibile parlare di “viltade” a proposito della rinuncia di Celestino V?

In realtà, dimostrò grande coraggio, opponendosi a una Chiesa secolarizzata, trasferendo il papato a Napoli e tornando a fare l’eremita sul Monte Morrone, rinunciando a ogni privilegio. Inoltre, Dante scriveva le pagine dell'”Inferno” nei primi anni del XIV quando Celestino V era stato già beatificato e non è credibile che il Poeta, sempre in linea e rispettoso della Chiesa, collocasse all’Inferno un santo. Senza poi dimenticare, sosteneva lo storico Iannucci, che quello di Celestino V non fu un “rifiuto”, ma caso mai una “rinuncia”. Rifiuto sarebbe stato se non avesse mai accettato l’elezione a papa.

Ultima, una tesi forse più debole, Dante dice “vidi e ‘conobbi’ l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” e non “vidi e ‘riconobbi'”. Cioè: ebbe modo di conoscere. Ma il poeta, già conosceva Celestino V e, quindi, avrebbe dovuto scrivere “riconobbi”.

Angelo Chiaretti, dantista di fama nazionale, a conferma delle tesi di Iannucci, ha scritto un pamphlet dal titolo “Dante, grande elettore di Papa Celestino” in cui sostiene che il poeta toscano non era affatto avverso al santo di Morrone. “Aspetto di non secondaria importanza – afferma il professor Chiaretti – è che Dante ha messo nell’Inferno cinque Papi ma nessun Santo e la beatificazione di Papa Celestino V è del 1313, sei anni prima, cioè, dell’uscita completa della Divina Commedia. È impossibile che nei 14 mila versi della sua principale opera Dante non abbia mai citato Ponzio Pilato che, con la sua ‘viltà’, condannò Cristo”.

Immagine di apertura tratta da wikipedia

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