Sarajevo, 1984. Nella città, in festa per i Giochi olimpici invernali, avviene l’incontro tra la studentessa italiana Gemma (Penelope Cruz) e Diego (Emile Hirsch), esuberante fotografo americano. Nonostante il matrimonio di lei col fidanzato sia già programmato, Gemma e Diego finiscono coll’innamorarsi e sposarsi. Tuttavia la vita insieme, da spensierata ed entusiasta, si trasforma in un incubo quando Gemma scopre di essere sterile; la ragazza non riesce ad accettare la propria situazione, allontanando sempre più il marito. Allo scoppio della guerra in Bosnia, questi decide di rientrarvi per prestare soccorso ai vecchi amici; seguitolo, Gemma si convince che la loro sola possibilità di avere un bambino è pagare un’altra donna perché resti incinta di Diego.
Molti anni dopo, ormai affermata giornalista, Gemma ritorna a Sarajevo assieme al figlio Pietro (Pietro Castellitto) in occasione di una mostra fotografica sull’assedio, dove saranno esposte anche immagini di Diego. Il ritorno ai luoghi che avevano per sempre segnato la sua vita, le consentiranno di conoscere le tante verità nascoste su quanto accaduto.
Sergio Castellitto, dopo quasi dieci anni, ripropone sul grande schermo un lavoro tratto da un libro della moglie Margaret Mazzantini. “Venuto al mondo” è una storia molto forte e profonda sulla pagina scritta, e il regista è riuscito in buona parte a mutuarne la potenza sulla pellicola. La prima, notevole impressione è che questo sia stato un film molto sentito da Castellitto; a discapito delle obiezioni avanzate dai critici, non si può affibbiargli la definizione di melodramma, in quanto il regista appare molto sincero e coinvolto nella narrazione della storia. Le scelte registiche di Castellitto rischiano sì talvolta di toccare in maniera troppo vibrata le corde della retorica, ma la materia in argomento non consentirebbe altrimenti. La Mazzantini e Castellitto infatti ci rimandano ad un evento storico che è cronologicamente tanto vicino, quanto nelle nostre coscienze è stato rimosso e allontanato: la guerra della Bosnia – Erzegovina. Una campagna avvertita allora così drammaticamente vicina, e cui oggi nessuno pare più pensare. L’assurdità della guerra, indagata dal regista non nelle sue circostanze storiche ma solo come fattore di sofferenza e tragedia per una popolazione inerme, è pietra tombale della speranza che fa completamente da contraltare alla prima parte del film, quella degli anni spensierati e lieti dei giochi olimpici, di una città appena affacciata alla modernità, di boschi sconfinati e neve luminosa.
Il tutto funge da sfondo a una bellissima storia d’amore. Amore di una donna, per un uomo prima, e per un figlio poi. Un figlio agognato, voluto a tutti i costi: un “lucchetto di carne” che permettesse a Gemma di tenere stretto a sé l’uomo amato. La sofferta persecuzione del suo desiderio diventa per Gemma una fissazione: l’amore assoluto di Diego, che per lungo tempo Gemma crederà estraneo e insofferente a quel desiderio, in realtà lo conduce a compiere di nascosto tutto quanto, nel bene o nel male, potrà fare per donare alla moglie la felicità da lei cercata. La felicità rappresentata da un figlio “venuto al mondo” tra il dolore, la morte, la guerra: la luce della speranza e del domani in un oceano di buio.
Il ritratto dei protagonisti è valorizzato dagli interpreti: tutto il cast è tenuto a briglie corte da Castellitto, dando una discreta prova di qualità (ad eccezione di Pietro Castellitto, malamente doppiato ed ancora immaturo per il grande schermo). Una menzione veramente speciale va però fatta per Penelope Cruz, bellissima ed eccezionale nel dar vita a questo personaggio, nei cui panni si cala con una dedizione, una dolcezza ed una sofferenza degne del miglior cinema.
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