Rischio id(rog)eologico

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Alzo subito le mani in segno di resa: io nel giorno della grande paura ero un lucchese al sicuro. Mi trovavo, infatti, in Piemonte.

Fuori c’era la neve caduta nel giorno precedente e il sole che iniziava a far capolino quando ho cominciato a sbirciare nel web per scoprire che il Comune di Lucca invitava i cittadini a salire ai piani alti e che alcune zone erano a rischio evacuazione. L’Oltreserchio, quella fetta di pianeta in cui dormo e mi muovo, era di nuovo sotto minaccia. Inutile dire che la mente è tornata in un secondo alle immagini del Natale del 2009, ad una in particolare: quella che uso in questo articolo. Da quel momento è iniziata una sequenza di sms e telefonate che mi ha convinto a salire in auto per rientrare precipitosamente a Lucca.

Quatto ore di viaggio sono lunghe quando c’è il rischio di arrivare nella tua città e trovarla inondata, quando temi di dover risentire quel cattivo odore del fango alluvionale che raccogli nella camera di un amico o di un perfetto sconosciuto. Allora pensi e ti vengono in mente delle cose. A volte sembrano essere molto lontane dalla realtà, altre sono terribilmente vicine. Se poi tutto si conclude fondamentalmente con una grande paura ma con danni limitati rispetto a quanto temuto, la notte porta ulteriori pensieri o consolida quelli già balenati per la testa.

Avviso tutti: sto abbassando le mani, la resa è finita. Ora passo all’attacco. Non lo faccio additando qualcuno in particolare, lo faccio con una riflessione rivolta alla comunità intera, comunità che comprende anche me. Mi rendo conto, tuttavia, che qualcuno potrebbe sentirsi chiamato in causa e lo invito a far propria la riflessione anziché cercare una difesa che non è necessaria né utile, tanto meno ricercata con questo scritto.

Per mesi si è discusso del destino delle province, di quali sarebbero state quelle nuove e di che fine avrebbero fatto quelle vecchie. Poi il capoluogo! Con un campanilismo degno della miglior toscanità ognuno ha difeso la propria città motivandone il ruolo di “nuovo capoluogo”, ognuno ha elencato le ragioni per cui il capoluogo non avrebbe dovuto essere questa o quell’altra città toscana. Nessuno ha risposto al fondamentale e non troppo implicito quesito posto dai cittadini: cosa cambia per i comuni mortali? Ho letto e riletto i giornali, gli interventi dei più disparati portatori d’interessi, le cronache dei consigli comunali e di mille altri incontri e ho sempre avuto l’impressione che la vita del cittadino comune, del Mario Rossi e della Maria Rossi di turno, fosse del tutto estranea alla discussione. Ho parlato con amici, parenti e perfetti sconosciuti e al di là del sarcasmo sui lucchesi che diventano pisani e sui pisani che diventano livornesi, nessuno di essi mi ha espresso l’idea che qualcosa potesse cambiare in meglio. Ho ascoltato un generale pessimismo. Ho percepito un certo grillismo frutto del progressivo allontanamento della politica dalla vita del cittadino medio, quello sfigato che meno di tre anni fa aveva l’acqua in casa, quello che ha perso o teme di perdere il lavoro, quello di chi a vent’anni come a quaranta non riesce ad andare al di là del presente. Non ci riesce e non lo vuole fare, perché nel futuro c’è il buio o, tanto per rimanere in tema, il colore delle torbide acque del Serchio in piena.

Poi, d’improvviso, nel giorno della grande paura, schiere di politici ed amministratori sono giunti tra le genti. Per qualcuno è stata un’apparizione al limite della sacralità: l’eminente figura istituzionale che si materializza sotto casa o  che in TV o nel web parla di un problema alquanto concreto. Sui social media c’è chi si chiede perché, mentre in sovrimpressione in TV si legge che le case vanno abbandonate o che si deve salire ai piani alti, il Presidente di turno dice che la situazione è sotto controllo e si può stare tranquilli (è andata bene carissimi, se pensate alla sfiga della Commissione Grandi Rischi in occasione del tragico terremoto abruzzese…). Qualcuno scrive “Questi signori si vedono solo in caso di elezioni e catastrofi varie”. E io tremo. Tremo perché sembra essere proprio così e quando in democrazia le elezioni dei nostri rappresentanti vengono associate a “catastrofi varie” non è un bel segnale, anzi. Non è bello ma è un segnale. Un segnale che va colto. Un segnale che in primis deve cogliere chi oggi ha ruoli di governo a qualsiasi livello.

La gente vuole esser tenuta in considerazione, la gente è disposta a fare sacrifici se ha la sensazione che ci sia un lavoro di squadra in cui ai sacrifici corrispondono benefici per tutti (e non privilegi per pochi). La gente vuole che gli amministratori, dai politici ai funzionari, esca dal palazzo dove si teorizza per andare in strada, nei campi, nelle piazze, nelle case e nelle fabbriche per capire quali sono i problemi del mondo reale. La gente vuole che costoro ritornino per poche ore nel palazzo per trovare le soluzioni. Poi di nuovo fuori per attuare le soluzioni. E vuole che accada in un giorno qualsiasi, non solo in quello della grande paura.

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