All’indomani della strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) Pier Paolo Pasolini definì quanto avvenuto negli ultimi anni “il romanzo delle stragi”. E Marco Tullio Giordana, ultimo di una gloriosa serie di registi italiani impegnati a creare una coscienza civile nello spettatore, ha scelto di intitolare proprio “Romanzo di una strage” il suo ultimo lavoro, dedicato alla tragedia di Piazza Fontana, in cui, a causa di una bomba esplosa presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, persero la vita diciassette persone.
Le indagini sul drammatico avvenimento costituiscono un excursus sull’Italia di quegli anni: i circoli anarchici, Lotta Continua, gruppi neofascisti, il progettato golpe di Junio Valerio Borghese, la crisi istituzionale di una democrazia ancora giovane minata dal suo stesso interno, l’ambigua figura di Giuseppe Saragat e quella luminosa di Aldo Moro, i servizi segreti deviati; ma soprattutto sono solo l’inizio della tragedia umana dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi, vero protagonista del film.
Si sentiva la mancanza di un cinema che scandagliasse l’anima oscura di un’Italia ancora recente, di vicende il cui racconto ancora oggi addolora e stupisce. Giordana prende in mano, assieme agli sceneggiatori Rulli e Petraglia, una materia ancora scottante (nel 2009 scoccò il quarantesimo anniversario dalla strage, quest’anno ricorre quello della morte di Calabresi) per farne una vera e propria narrazione da “romanzo”, strutturata in capitoli: lo fa con misura e tatto, dando vita ad un lavoro asciutto e meritevole, pieno di dignità e sete di verità.
La sceneggiatura, eccessivamente didascalica nei primi minuti, ha un netto miglioramento con l’avanzare del film, ricreando con agghiacciante sincerità sia i sentimenti più nobili (come la ricerca della verità da parte di Licia Pinelli e del giudice Paolillo), sia quelli più abbietti (magistrale la scena in cui, in questura, si concorda la versione da dare sulla morte di Pinelli).
Purtroppo il cast (che comprende Pierfrancesco Favino nel ruolo di Pinelli, Michela Cescon in quello di Licia Pinelli, Laura Chiatti come Gemma Calabresi, Fabrizio Gifuni – veramente pessimo – come Aldo Moro, Luigi Lo Cascio nei panni del giudice Paolillo, Giorgio Colangeli nei panni di Federico Umberto d’Amato, Omero Antonutti in quelli di Saragat) non si rivela sempre all’altezza: il peso della responsabilità forse si fa sentire e molto spesso assistiamo a interpretazioni molto forzate e teatrali, poco “vive”.
Ciò non vale però per il vero protagonista di questo film: il commissario Calabresi di Mastandrea è eccezionale. L’attore dipinge con sapienza e tatto un personaggio straordinario. Ricordiamo che Calabresi, che al momento della morte di Pinelli era uscito dalla stanza dell’interrogatorio, fu a lungo accusato dell’omicidio di questi, fino all’estrema conseguenza che conosciamo. Il Calabresi di Mastandrea e il Pinelli di Favino sono in rapporti cordiali: appartenenti a mondi estranei che non cercano di capirsi ma tentano una convivenza che, al di là dell’ideologia, verte sul rispetto della singola persona.
La morte del Pinelli apre la tragedia umana di Calabresi, rimasto solo in quello stesso ufficio dove il percorso della sua vita cambiò per sempre, stimato e abbandonato dai superiori a fronteggiare la ridda di accuse, capro espiatorio di un sistema statale in cui la menzogna, antitetica alla verità, è all’ordine del giorno. La cosa più sconcertante, in questo groviglio di cospirazioni e violenze in cui si annulla la dignità umana, è il fatto che per questa tragedia nessuno è mai stato realmente condannato dalla giustizia italiana.
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