Quel giorno con Sergio Fini

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Certe notizie arrivano improvvise, inaspettate. Creano smarrimento. Sergio Fini se n’è andato in un giorno canicolare di fine agosto. Così, d’improvviso. Lo avevo incontrato per la prima volta un anno fa per intervistarlo. Fu la prima e, purtroppo, l’ultima. Gli avevo mandato una mail a cui aveva gentilmente risposto con il suo numero di telefono: voleva fare l’intervista faccia a faccia, non gli piacevano le tecnologie.

Ci trovammo a Fornaci un giorno d’inizio settembre presso la sede di Smaskerando in via Cesare Battisti. Iniziammo a parlare. “Dammi del tu” disse scusandosi per la confusione che c’era in giro. Nelle grandi stanze c’erano decine e decine di suoi quadri, alcuni anche molto vecchi, accatastati. “Una volta dipingevo così” mi disse facendomi vedere una sua opera giovanile molto classica. “Ma non mi bastava” aggiunse “volevo trovare la mia strada”. Iniziò così a raccontarmi la sua storia mentre passavamo di stanza in stanza, di quadro in quadro. “Io li tengo tutti qui. Non mi importa venderli questo non è il mio lavoro, io sono in pensionato” mi disse marcando sulla parola pensionato con orgoglio e divertimento. Aveva fatto per più di vent’anni l’operaio alla Smi, prima tanti altri piccoli lavori sempre, però, nel tempo libero, continuando a dipingere.

“Sono 43 anni che dipingo” mi disse con la voce bassa. 43 anni sono tanti, una vita. Da quando aveva dieci anni e a scuola i professori si portavano a casa i suoi disegni. “Per me era una grande soddisfazione, mi sentivo importante, e ancor oggi sono contento: gli è rimasto qualcosa di me” ricordò con un ampio sorriso che illuminò il volto barbuto. Un espressione che si rabbuiò quando incominciò a raccontarmi i suoi primi passi nel mondo dell’arte. “All’inizio esponevo in galleria ma poi mi dissero dovresti iniziare a pagare qualche critico, non mi piaceva quell’ambiente, allora decisi che avrei esposto solo in luoghi pubblici.” Già poteva sfondare, forse, Sergio Fini però certe cose a lui non piacevano, era un puro.

“Fino al 1998 facevo pittura figurativa poi ho iniziato a fare l’astratto perché solo così riuscivo a raffigurare l’emozione che è una cosa densa palpabile, granulosa, colorata; e per spiegare i quadri li accompagnavano con parole, così sono nate le mie poesie. Mi sono creato anche dei segni convenzionali che esprimono concetti che altrimenti ci vorrebbero molti quadri per far capire, sono le rune scritte usate nel Nord Europa nel 600 a.C. dai druidi che servivano per il viaggio nell’aldilà. Ora sto sperimentando la pittura a occhi chiusi, solo l’emozione mi guida”. E in effetti quelle ultime opere, quegli alberi carichi di colori e di sentimento, hanno una misteriosa e arcaica bellezza sprigionata proprio da quella realizzazione improvvisa e spasmodica.

In quei giorni di settembre era molto impegnato: stava preparando le sue mostre personali a Pontedera e Matera, continuava le sue attività (realizzando terracotte, multipli, e oggetti), organizzava la manifestazione “Galliart” e faceva le prove per lo spettacolo “La nave dei folli”. Freschi di stampa i manifesti che annunciavano il suo corso di pittura emozionale. “Non sarà solo un corso di pittura, ma di vita, di filosofia” tenne a precisare spiegandomi che potevano partecipare tutti, meglio chi non aveva nessuna base tecnica, tanto le avrebbero dovute “disimparare” per “liberare l’emozione”.

Nel suo grande cuore, però, mi raccontava, era rimasto un corso di pittura, tenutosi al Ciocco e organizzato dall’Usl 2 per insegnare agli invalidi a dipingere ed esprimersi. “È un esperienza che mi ha dato veramente tanto, vedere la felicità nei loro occhi ti ripaga di tutto”. Alle pareti dell’ultima stanza in cui ci fermammo, alcuni di quei lavori realizzati dai suoi “allievi”.  Me li fece notare mentre si accendeva una sigaretta.

Poi suonò il telefonino, rispose. Era una sua “paziente”. Inizialmente cercò di tirare corto ma poi si lasciò prendere dalla conversazione, la signora lo ringraziò, lui si commosse. Quando spense il telefono si scusò con gli occhi che brillavano. Parlammo ancora nella grande stanza mentre l’ultima luce di quel giorno di settembre inondava le cose. Poi ci avviammo verso l’uscita. In attesa dell’uscita dell’articolo e di alcune collaborazioni, ci salutammo. Le nostre strade si divisero, il cuore contento e sollevato, come quando capisci di aver conosciuto una persona speciale, nell’aria già il profumo dell’autunno.

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