La scomparsa di Sergio Fini

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Ieri alle 15.00 è venuto a mancare Sergio Fini, pittore e poeta originario di Cardoso ma da sempre residente a Fornaci.
Qui aveva lavorato e costruito la sua famiglia, qui si era impegnato nel sociale partecipando con la compagnia Papalagi allo sviluppo dello spettacolo La Nave dei Folli.
Promotore della rassegna d’arte contemporanea “Galliart”, per anni era stato in prima fila per portare i migliori artisti in mostra a Gallicano.
Poeta e pittore, si era fatto conoscere e apprezzare ben oltre i confini del comune, esponendo i suoi quadri in tutta la lucchesia, fino ad arrivare ai confini della toscana ed in altre località italiane, così come aveva ricevuto importanti riconoscimenti con la sua poetica.
Molte le iniziative organizzate per parlare di arte, poesia e comunicazione, promosse presso l’Antico Caffè Centrale a Fornaci.


E così un’altra anima bella se n’ è andata lasciando un enorme silenzio nel paese in cui tanti gli erano affezionati.
Per il suo lavoro, per la sua arte, per il suo scrivere, per il suo filosofeggiare e per il suo giocherellare, ognuno aveva un buon motivo per amarlo: si vede oggi, con le persone che sgrano gli occhi e non ci credono.

Ma il Grande Albero se n’ è andato con tutte le sue fronde, con i rami secchi pronti da tagliare e le foglie in gemma che stavano per schiudersi.
Un po’ saggio Buddha mosso da energie che andavano e venivano attraverso le sue mani, un po’ compagnone da bar sempre pronto all’ironia, alla battuta e al surreale; un po’ solido tronco a cui in tanti, nel tempo, si erano appoggiati per ritrovare l’equilibrio.

E poi pittore – soprattutto pittore, con un intimo modo di accorciare le distanze tra dentro e fuori, tra pancia e tela danzando con le dita vestite solo di colore per mezzo di movimenti leggeri e rapidi che già di per se erano arte.
Solo tele enormi per le sue emozioni, dove spargeva tensioni e armonie immediatamente e senza filtro, a volte rinunciando anche alla vista per non essere disturbato dalle interferenze della ragione.

Li chiamava autoritratti i suoi alberi infuocati di colore e illuminati di mille tonalità; il bianco era bandito dal suo lavoro: la luce per lui era sempre e comunque colore, gocce distribuite con i polpastrelli che davano al contempo volume, luminosità, ombre e mezzitoni in uno stile astratto ma leggibile. Emozionale, come chiamava la sua pittura, sulla quale stava scrivendo appunti da pubblicare e con la quale insegnava ad allievi di diversa estrazione a liberarsi dai preconcetti, dalle sovrastrutture, dai blocchi della ragione.

Ma negli anni aveva lasciato tracce di se e del suo infinito lavoro sull’essere anche nelle poesie, che continuava a scrivere sulla sua agenda nera, a penna, sondando il dentro e il fuori della vita. Una prosecuzione – o una propedeutica – ai suoi quadri.
I suoi quadri che negli anni hanno sentito molto dei cambiamenti che ogni essere umano pensante e cosciente affronta, e a volte subisce.

“Nella vita puoi scegliere se camminare per strada – a diritto, in piano, comodamente – o passare per i viottoli, affrontando salite e discese, perdendo il sentiero e ritrovandolo anche molto dopo, camminando su erba, fango o sassi, inciampando.”
“Troppo più comoda la strada, in pochi si addentrano nei viottoli della vita, tortuosi ed incerti. Ma più ricchi, pieni di spunti, di rivelazioni. Tutti da conquistare però”.

Questo raccontava, e questo svela la varietà di stili nella sua produzione e le grandi sfumature della sua personalità: perché a volte ha camminato in piano, altre in salita, altre è sprofondato nel fango, altre è rotolato sulle pietre.

Ed ogni volta ha messo sulle pagine delle sue poesie e sulle tele dei suoi quadri le scoperte fatte durante il viaggio della vita per il quale non ha mai rinunciato a percorrere la strada più difficile, ma più ricca, per l’anima.

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