Posti in piedi in paradiso di Carlo Verdone

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Dopo qualche scivolone negli ultimi lavori, Carlo Verdone torna al cinema con una commedia che pare restituirgli lo stato di grazia in cui ha versato per tanti anni. I posti in piedi in un paradiso che, misurato sulle intenzioni e non sui fatti, risulta troppo affollato, sono quelli sognati da un trio di “precari” di vita che sono solo la punta dell’iceberg di una società in crisi. C’è Ulisse (lo stesso Verdone), nevrotico ultracinquantenne che, dopo una gloriosa carriera da produttore musicale stroncata dal debutto fallimentare della allora sua moglie (Diane Fleri), si riduce a barcamenare un negozietto di cimeli e vinili d’epoca, con ex coniuge e figlia da mantenere in quel di Parigi; vive nel suo retrobottega. Fulvio (Pierfrancesco Favino) è un ex giornalista cinematografico retrocesso alle pagine del gossip quando la moglie (Nicoletta Romanoff) l’ha lasciato dopo aver scoperto che lui aveva una storia con la moglie del capo; vive presso un istituto di suore. Domenico (Marco Giallini) è un agente immobiliare (e gigolò per anziane signore, tanto per arrotondare) dedito al gioco, che puntualmente non corrisponde il denaro necessario alle sue due ex famiglie; vive nella barca prestatagli da un amico. Il problema residenziale sembra risolversi per tutti e tre quando, senza conoscersi, decidono di dividere lo stesso appartamento, ammortizzando così il costo dell’affitto. Ai prevedibili problemi di convivenza, mancanza di liquidi e fallimento della vita privata, si aggiungono i fallimenti sentimentali di una imbranata e sfortunata cardiologa (Micaela Ramazzotti) che riaccende la passione di Ulisse.

Il buon Verdone sembra, se non aver ritrovato i fasti di una volta, almeno essersi riavvicinato. Lo fa delineando una serie di personaggi, un po’ macchiette e un po’ canali verso il reale: l’impressione è resa ancor più vivida da interpretazioni estremamente accurate nella tempistica e nell’appropriamento dei personaggi. Sono bravi i tre protagonisti maschi tra cui spicca Giallini che dà al suo lavoro un tocco di quell’inimitabile cialtroneria romana, e la protagonista Ramazzotti che qui mostra il meglio della sua verve; restano più indefiniti i personaggi secondari. Anche la sceneggiatura, nonostante una stanca iniziale, sente di una buona scrittura che non rasenta la banalità e che ha dei veri e propri picchi di divertimento, riscuotendo l’apprezzamento del pubblico.

La questione su cui sostanzialmente è incentrato il film di Verdone è quella degli affetti. Affetti familiari, su cui il film fa una luce disastrosa tra divorzi, separazioni, tradimenti, lasciti. Nonostante ciò, la famiglia appare come il pilastro su cui poggiare le proprie certezze, tanto che i tre personaggi principali arrivano, in qualche modo, a costituire loro stessi un nucleo inconsapevole:  homo homini deus. Affetto amicale, che spinge persone apparentemente lontane tra loro a sostenersi e intraprendere anche scelte stupide in virtù del legame che le unisce. Affetto per il passato, oggettivato nel cinturone di Jim Morrison conservato come una reliquia da Verdone; purtroppo, il passato non è fatto solo di ricordi color seppia dai dolci toni ma anche di sbagli, parole mai dette, gesti mai compiuti:  è inutile osannare qualcosa che sai non poterti rendere felice nel presente. Assenza di affetto, soprattutto nel rapporto filiale, difficile da costruire sia a distanza (la figlia di Verdone sta a Parigi), sia nella dimenticanza (Favino non nomina quasi mai la figlia piccola), sia con chi è vicino ma si è perduto da tempo (i figli di Giallini che o si vergognano di lui o lo cercano solo per soldi). Un altro piccolo merito del film è quello di darci (al contrario di tante pellicole che viaggiano sui nostri schermi) un’ambientazione romana periferica e realistica e il ritratto sociale di una crisi subita nelle cose quotidiane.

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