Pascoli, come abbiamo visto nello scorso articolo, partì dalla nostra Valle il 17 febbraio con un treno speciale che fermò a Lucca (dove salì a salutare e a portare i soliti piccoli doni il Caselli) e “senza disagio”, verso le 18, arrivò a Bologna dove ad accoglierlo erano presenti amici e autorità. Ci fu poco tempo per i saluti. Stanco dal viaggio, fu subito trasportato nella casa in via dell’Osservanza. Non fu messo nella sua stanza da letto ma in quella più grande e ariosa, che dava sul giardino e verso il monte, con la vista di San Michele in Bosco (dove solitamente dormiva Maria). Nella stanza era presente un «ottomana» sulla quale per tutto il periodo della malattia riposò la sorella.
E proprio a lei ci affidiamo per raccontarvi gli ultimi giorni del Poeta (Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Memorie curate e integrate da Augusto Vicinelli, con 48 tavole fuori testo, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1961). Così, con la semplice intimità della sua parola diretta, quella di una “povera e umile donna” che si rende conto, ogni giorno di più che il “il male incalzava senza tregua”. Il gran maestro Murri che “lo visitò varie volte, confermò le nostre terribili previsioni. Il tumore maligno, svoltosi insidiosamente nello stomaco, aveva invaso il fegato, che andava dissolvendosi”.
Scriveva in quei giorni a un amica di Castelvecchio: “Io sono sola e per ora non ho cercato nessuno. Per Giovannino basto, e questo è tutto. È quella benedetta porta che mi ammazza! Non ha idea della gente che viene per notizie”. E di gente in quei giorni ne entrava: medici, infermieri, giornalisti, conoscenti, amici, preti e massoni.
La sera dell’11 marzo arrivò la notizia, dalla “lontana Amsterdam”, che il suo Thallusa aveva vinto la medaglia d’oro al Certamen poeticum Hoeufftianum.
“Poco dopo – ricorda la sorella – il 14 marzo, ci fu a Roma l’attentato contro il nostro re Vittorio Emanuele III, che cagionò a Giovannino un dolore indicibile. Quanto si agitò e quanto si commosse! (…) Intanto la malattia di Giovannino seguiva il suo corso; così dicevano i medici e così pure mi suggeriva lui di rispondere a coloro che chiedevano sue notizie”. Costretto a letto ogni giorno leggeva parecchi giornali seguendo “con sempre maggior ansia” le notizie della guerra di Libia “che a volte non trovava troppo soddisfacenti, e se ne addolorava”.
Pensava anche alla sua casa di Castelvecchio. Un giorno sentendo un cinguetrtio di rondini chiamò la sorella dicendogli: “Tornano le rondini! Bisogna scrivere a casa che badino di non distruggere i nidini sotto la nostra grondaia, perché qualcuno mi fece l’osservazione che gli escrementi che ne cadono insudiciano le piante che sono al muro. Per me non è affatto un sudiciume quello!”
Poi il 22 marzo si alzò e si recò nello studio riservato alla poesia rivedendo alcuni appunti sul poema risorgimentale. Prese un foglio bianco e ne scrisse pure il titolo: “Il Tricolore” ma non andò oltre, sorpreso da fortti dolori fu costretto a tornare a letto confessando alla sorella: “se morissi ora, sarei pieno di semi come una zucca! Non posso morire ora perché mi trattengono i miei lavori e Mariú!”
La domenica, domenica delle Palme (31 di marzo), ricorda Mariù, “gli portai un bel ramo d’olivo benedetto, a cui egli fece molta festa e volle che lo mettessi a capo del suo letto, così com’era, con tutti i suoi ramelli. Gli preannunziava la grande solennità della Resurrezione che tanto sentiva ed amava. Ma sulla sera divenne un po’ agitato, chiese il calmante che talvolta prendeva, e volle che gli allentassi la fasciatura che era troppo stretta e gli ostacolava il respiro e sconcertava lo stomaco”.
Mercoledi, 3 aprile, dettò il suo ultimo testamento davanti al notaio e ai testimoni ” il suo sinedrio ” come lì definì. “Lascio tutto a Maria detta Mariù”. Intanto che il notaio scriveva disse mestamente: “È ridicolo dire di lasciar tutto quando non si ha niente!”
“Verso sera disse: ho fame. Il cuore mi si allargò! Gli detti subito un biscotto, che egli mangiò volentieri facendolo scricchiolare coi denti, poi un caffè con ovo sbattuto, che prese molto bene. Indi si assopì”
Iniziò così lunghe ore di sonno con il respiro diventava sempre più grosso e affannoso.
Maria, pensando al peggio, mandò l’Attilia a chiamare il Padre Francescano Paolino Dall’Olivo “amico di lui” ma “il messo” è bloccato da un uomo del Falino che la fa tornare indietro. Evento che fu molto preso male dalla sorella del poeta. “Non so davvero qual diavolo lo istigasse per fargli compiere un’azione tanto deplorevole! Egli era, sí, un fratello e anche beneamato da noi, ma non aveva alcun diritto d’imporsi in casa nostra e, sopra tutto, di frapporsi ai nostri intimi sentimenti”.
“Lo stato penoso di Giovannino durò immutato fino a oltre il mezzogiorno del Sabato Santo. Io sperando disperatamente non mi ero mai scostata da lui, sempre tenendogli una mano nella mia, e spesso inumidendogli le labbra, povere labbra che il grave affanno prosciugava e arsiva! Ma ecco che, mentre le campane sonavano a festa annunziando la gloriosa Resurrezione del Redentore – la solennità cristiana prediletta da lui e da lui profondamente sentita – ecco che le dita della mano che tenevo io cominciarono a muoversi, ed anche un po’ a dischiudersi gli occhi. Dopo 36 ore si svegliava!”
La sorella dalla gioia iniziale si rese subito conto che la situazione non era migliorata “il mio adorato Giovannino, uscito finalmente da quel sonno in cui era rimasto 36 ore, era entrato in agonia! E m’illusi fino all’ultimo. Tre ore ebbe d’agonia come Gesù sulla croce! Alle ore 15 e qualche minuto del Sabato Santo – 6 aprile 1912 – a un tratto egli aprí del tutto i suoi dolci occhi, sollevò e abbassò convulsamente le braccia con un alto grido, poi reclinò da una parte la sua cara testa, emise tre brevi respiri e poi… più nulla”.
“Anche una volta il mondo par diminuito di valore” commentò, visibilmente commosso, D’Annunzio da Arcachon.
I giornali italiani il giorno dopo “ne fecero ampia memoria” concedendogli onori “quali mai egli ebbe in vita”. Il re mandò un suo telegramma di condoglianze.
“Con Giovanni Pascoli- scriveva Arturo Graf– un’altra luce trasmigra ma non si spegne”.
“Giovanni Pascoli- gli faceva eco Massimo Gorki- era una di quelle campane d’Italia che sempre piú forti e più fiere avvisano il mondo per l’avvicinamento di un nuovo Rinascimento”.
Era morto a 56 anni. Come Dante, come Beethoven: “niente è a caso nel mondo” scrissero.
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