Venerdì, in occasione del Giorno della Memoria, il Comune di Pieve Fosciana ha ricordato le vittime delle stragi nazi-fasciste nei campi di concentramento e sterminio con uno spettacolo della classe V della Scuola Primaria che ha recitato “La favola di Natale” scritta da Giovannino Guareschi durante la sua prigionia.
“Non è – spiegava il padre di Don Camillo e Peppone – una delle solite favole che rallegrano da secoli e secoli la prima giovinezza degli uomini, ma è stata scritta da uomini maturi e ad essi è stata raccontata nel Natale del 1944. E ciò avvenne in un campo di prigionia sperduto in una deserta landa del Nord”.
Quando l’Italia firmò l’armistizio con le truppe Alleate, Giovanni Guareschi si trovava in caserma ad Alessandria. Rifiutò di passare alla Repubblica di Salò e al Reich. Venne quindi arrestato e inviato nei campi di prigionia di Czestochowa e Benjaminovo in Polonia e poi in Germania a Wietzendorf e Sandbostel per due anni, assieme a centinaia di altri Internati Militari Italiani. “Non muoio neanche se mi ammazzano” fu il suo motto.
Anni dopo Guareschi ricordava i giorni precedenti al primo Natale di prigionia sul “Corrierino delle Famiglie”: “Il mio pensiero correva continuamente a casa, perché a casa c ‘era qualcuno che non conoscevo. Sempre dispettosa la Passionaria aveva aspettato che io mi trovassi in un campo di prigionia da ben due mesi per venire al mondo (…) E un giorno, un mio amico mi consigliò: sta per arrivare il Natale perchè non scrivi una bella favola per questi pezzenti divorati come te dalla fame dalle pulci e dalla nostalgia? È un modo come un altro per riportarli ai pascoli domestici, per riattaccarli alla vita”.
Annotava in quei giorni nel suo diario: “Venerdì 24 dicembre 1943 Vigilia di Natale. Neve in terra e nebbia – Salute adeguata – Minestra di cavoli, patate, marmellata, carne in scatola, pane. Ho disegnato la “Lettera del papà” sulla parete, e Novello ha finito il Presepe. Abbiamo fatto l’albero di Natale… Ho finito la mia conversazione “Natale 1943″; l’ho scritta con disperazione…”.
E il giorno dopo:
“Sabato 25 dicembre 1943. Nebbia e brina ricamata. Salute adeguata… Questa notte è venuto Albertino a trovarmi col suo sorellino e il buon Dio, per non farglieli vedere, ha coperto i reticolati con candidi fiori di gelo. Regalo del Bambino Gesù: dato i tempi ha fatto anche troppo”.
La Favola fu scritta a Sandbostel, nello Stalag X B, nell’inverno del 1944 ispirata da tre Muse: “Freddo, Fame, Nostalgia”. Racconta Guareschi nell’introduzione scritta dopo la guerra:
“Questa favola io la scrissi rannicchiato nella cuccetta inferiore di un ‘castello’ biposto, e sopra la mia testa c’era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d’angora”.
L’inizio della favola è spiazzante: “C’era una volta un prigioniero… No: c’era una volta un bambino… Meglio ancora: c’era una volta una Poesia… Anzi, facciamo così: c’era una volta un bambino che aveva il papà prigioniero”.
Albertino è un ragazzino che ha imparato a memoria una poesia da recitare a suo padre per la vigilia di Natale, ma il padre, prigioniero di guerra, non è a casa ed il bambino recita la poesia alla sedia vuota.
La finestra si apre all’improvviso ed i versi si trasformano in un uccellino che vola via nel vento.
Allora Albertino decide di andare in cerca di suo padre insieme al cane Flick, anche se i due non hanno mai viaggiato prima tranne che per andare dalla nonna, che abita nello stesso isolato.
Albertino e il cagnolino Flick attraversano insieme la terra della Pace diretti verso la terra della Guerra e incontrano lungo la via molti personaggi, finché non raggiungono la Foresta degli Incontri: una specie di terra di nessuno, dove finalmente si trovano davanti il padre di Albertino, che ha viaggiato in sogno per passare una notte speciale insieme al figlio.
“Era lui. Era il babbo. Era il babbo che, nella notte di Natale, era fuggito dal suo brutto recinto e ora camminava in fretta verso la sua casa”.
“Papà, perchè non mi prendi con te?” chiede Albertino.
“Neppure in sogno i bambini debbono entrare laggiù” gli risponde il papà. “Promettimi che non verrai mai.”
La Favola di Natale è la bella, semplice storia di un viaggio miracoloso reso possibile dall’amore di un bambino per il suo papà e di una vecchia donna per il suo “piccolo”.
“Quelle della Favola di Natale- scrive Giovanni Lugaresi- erano pagine ricche di metafore, con note polemiche, con soffi di poesia, ma soprattutto testimonianza che il Dio della pace che si incarnava nella notte santa, rappresentava l’Evento centrale nella vita di quei disgraziati, poveri straccioni affamati, lontani dalla patria, dalla famiglia, ma che trascinavano i loro giorni di pena all’insegna della fede, della speranza e della libertà. Sì, della libertà, perché – come aveva avvertito lo stesso Guareschi in un precedente scritto – lui non poteva uscire dal campo di concentramento, ma poteva entrare chiunque: sogni, ricordi, affetti, e pure il buon Dio! La libertà essendo, prima di tutto, un fatto interiore. È la libertà dei figli di Dio”.
La prima dello spettacolo si tenne domenica 24 dicembre 1944 fu, come ricordava Guareschi, “un successone”.
“I violinisti non riuscivano a muovere le dita per il gran freddo; per l’umidità i violini si scollavano, perdevano il manico. Le voci faticavano ad uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo. Ma la sera della vigilia, nella squallida baracca del “teatro”, zeppa di gente malinconica, io lessi la favola e l’orchestra, il coro e i cantanti la commentarono egregiamente, e il “rumorista” diede vita ai passaggi più movimentati (…) la realtà era tutto attorno a noi. Io la vedevo seduta a tre metri da me vestita da Dolmetscher e quando il rumorista cantava con voce roca la canzoncina delle tre cornacchie e il poliziotto di servizio sghignazzava divertito, io morivo dalla voglia di dirgli che non c’era nulla da ridere: guardi, signore, quella cornacchia è lei!”
Poi con un nodo alla gola Guareschi chiuse così lo spettacolo: “E se non v’è piaciuta , non vogliatemi male, ve ne dirò una meglio il prossimo Natale e sarà una favola senza malinconia: c’era una volta la prigionia”.
Promessa mantenuta: la sera del 23 dicembre 1945 all’Angelicum di Milano si tenne lo spettacolo a favore delle famiglie degli ex internati; e tornarono la commozione, le speranze, la fede, la poesia di quel Natale fra i reticolati. Nella penombra della sala, mentre i bambini ridevano rapiti dallo spettacolo, i volti degli internati si rigarono di lacrime che scendevano leggere: come aveva scritto Guareschi “njon avevano vissuto come bruti”. La fame, la sporcizia, le malattie, “la disperata nostalgia” dei loro cari non li avevano sconfitti. Non avevano mai dimenticato di essere Uomini. “Con un passato e un avvenire”.
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