La solitudine dei numeri primi

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LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMIItalia, Francia, Germania 2010di Saverio Costanzo ———Costanzo, già apprezzato regista di film quali Private e In memoria di me, ha voluto affrontare il best seller di Paolo Giordano La solitudine dei numeri primi, Premio Strega nel 2008, libro estremamente lineare nel suo scorrere cronologico e nella sua fluidità narrativa e linguistica. Lo ha voluto fare sparigliando la vicenda in brevi flash back o flash forward, incrociati in una specie di thriller psicologico, una visione non condivisibile ma sicuramente originale. Chi sono questi numeri primi? I numeri primi (concetto che nel film viene toccato superficialmente, e non riesce a trasudare dalla vicenda) sono Mattia (Luca Marinelli) e Alice (Alba Rohrwacher, straordinaria come sempre). Due numeri primi, appunto: vicinissimi e simili tra loro ma con un ostacolo, un qualcosa che sta in framezzo e li costringe sempre a rimanere separati l’uno dall’altra. Nel caso dei nostri protagonisti si tratta di due tragedie rimosse che segnano irrimediabilmente le loro esistenze (lei è zoppa e anoressica, lui è dedito in maniera spaventosa all’autolesionismo), facendone agli occhi del mondo dei disadattati che però maturano tra loro un rapporto complice e necessario che li porta ad abbandonarsi e a cercarsi per tutta la vita, nel tentativo di combattere insieme i propri fantasmi.
Ma questi fantasmi, mentre nel libro sono origine e cagione di ogni vicenda, nel film fanno fatica a riemergere: si vuole tenere lo spettatore in uno stato di suspence che però, al contrario delle intenzioni, arriva a suscitare nient’altro che noia e incredulità; la tensione di ogni scena, di ogni piccola rivelazione è smaccatamente artificiale e ricorre talvolta ad espedienti imbarazzanti (la comparsa del futuro marito di lei, l’ingresso onirico nella casa di Mattia attraverso un corridoio di foglie). La necessità di comprimere le numerose vicende del libro porta ad un impoverimento complessivo della storia che ad alcuni tratti pare buttata via, o rimane abbandonata, in sospeso (come il personaggio di Viola); le inquadrature sono talvolta imbarazzanti, a livello di regia televisiva, di certo non aiutate da una fotografia sgranata e monocorde. La colonna sonora è nel complesso efficace ma rischia qualche volta di cadere nella ridondanza: quello di cui insomma ha peccato Costanzo è di aver dato un’interpretazione personale senza poi essere riuscito a mettere insieme i mezzi e il codice linguistico attraverso cui illustrarla. Due piccole citazioni recitative a parte: il bambino che interpreta Mattia a otto anni, un gioiellino di candore e tristezza infantile, e il grande Filippo Timi (al cui lancio Costanzo ha in passato decisamente contribuito) che, nonostante appaia solamente per un paio di minuti, sotto uno spesso strato di trucco, “fa tremar le vene e i polsi”.

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