LA NOSTRA VITAdi Daniele LuchettiItalia 2010.Il film che ha valso a Elio Germano la Palma d’Oro per la miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes ha per sfondo le borgate periferiche romane, un limbo a metà tra scheletri di palazzine in costruzione e campi secchi battuti dalla pioggia e dal sole. Claudio (Germano) è un operaio edile trentenne già papà di due bimbi e in attesa del terzo dall’amatissima moglie Elena (Isabella Ragonese). Lei muore di parto e Claudio, nonostante la vicinanza dei fratelli Piero, un poliziotto zitello e noioso (Raoul Bova) e Liliana, una madre di famiglia in cassa integrazione (Stefania Montorsi), si perde cercando nel lutto di dare ai figli, privati della mamma, una vita più agiata; si mette in proprio per la costruzione di una palazzina ricattando il suo capo (aveva nascosto la morte di un operaio a nero durante un lavoro precedente) e chiedendo un prestito all’amico pusher (Luca Zingaretti). Ma l’agiatezza economica presto si rivelerà labile e incapace di colmare la voragine morale in cui la vita di Claudio ha inciampato.Elio Germano, giovane ed eccezionale interprete del cinema contemporaneo, dà anima e corpo ad un personaggio improntato consapevolmente ad un approfondimento psicologico che rasenta lo zero, ma dalla corporeità, dalla concretezza straordinarie. La sofferenza del neo vedovo non è mai realmente espressa (tranne nella scena del funerale) ma è sempre straordinariamente presente, sospesa in tutta la pellicola come una parvenza invisibile e intollerabilmente pesante. Dolore che cerca sfogo nella direzione sbagliata: credere di poter restituire alla propria vita ciò che è mancato attraverso il denaro, l’acquisto, lo sfoggio della materialità. Cultura del possesso che amaramente permea una vicenda e un intero paese, il nostro, e che cozza contro l’altro perno del film: la famiglia. Quella famiglia rappresentata nella più stretta e mediocre quotidianità (i pranzi domenicali, la spesa al supermercato, la recita scolastica; tutto in un milieu sociale medio – basso, ambientazione inusuale per gli standard cinematografici italiani) che Claudio accantona e dimentica, fino a che si rivelerà invece l’unico elemento a venirgli in sincero soccorso nel momento del bisogno. Come ogni lavoro di Luchetti, questo film soffre di lungaggini e di qualche ingenuità di sceneggiatura; inoltre la vicenda della morte bianca a livello della storia è francamente trascurabile.
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