Happy Family

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HAPPY FAMILYdi Gabriele SalvatoresItalia 2010 ———————-In una inedita Milano color pastello si intrecciano le storie di Ezio Colazzi (Fabio De Luigi), trentottenne inoccupato (si è sempre mantenuto coi proventi di un brevetto del padre) che ha deciso di scrivere la sceneggiatura di un film -un film d’autore, “che però incassi”- e di due sedicenni, il leccatissimo Filippo (Gianmaria Biancuzzi) e la grunge Marta (Alice Croci) che hanno deciso di sposarsi mandando in panico le loro famiglie: da una parte la famiglia altoborghese formata da Margherita (la Buy), convinta dell’imminente fine del proprio matrimonio, Vincenzo (Fabrizio Bentivoglio), che ha scoperto di stare per morire, Caterina (Valeria Bilello) sorella complessata ed infelice e la nonna(Corinna Augustoni)
malata di Alzheimer; dall’altra i genitori Diego Abatantuono e Carla Signoris, cannaiolo lupo di mare lui ed alcolizzata isterica lei. Quelli appena elencati non sono altro che i protagonisti della sceneggiatura di Ezio, ma i due piani narrativi si intersecano e confondono continuamente, finché lo scrittore è costretto a farsi servo e complice dei propri personaggi.
Salvatores ha creato un’opera meta-cinematografica-meta-teatrale partendo da una piéce di Alessandro Genovesi, che si dipana senza linearità tra episodi e gag (difficile da spiegare, molto più semplice da seguire); non una storia stesa a tavolino ma l’ambiziosa rappresentazione della vita vera, con tutti i suoi imprevisti e gli strani casi: una pellicola che va fuori dagli abitudinari canoni della produzione italiana.
Non a caso, il film è aperto e chiuso da un sipario rosso, nella più saggia rappresentazione teatrale: e sembra infatti di trovarsi su un palcoscenico pirandelliano dove però i personaggi imbevuti di tragedia sono sostituiti da un’ottima compagine comica e di verve (tranne la Buy, incastrata perennemente nella medesima parte; splendidi Abatantuono e Bentivoglio che costruiscono una solida amicizia tra due personaggi agli antipodi). La sensazione di fondo che però caratterizza il film è che il tono brillante e divertente non sia che il gigante ed inutile tentativo della nostra società contemporanea di nascondere senza successo quella gran malinconia, quella gran confusione ed incertezza che accompagnano in sordina il mondo moderno (come ogni volta infatti Salvatores ha fatto una dedica del proprio lavoro, e questo è rivolto “a chi ha paura”). Paura che però non riesce a celare la bellezza di quanto ci circonda, che può essere raggiunta anche nei luoghi più impensabili, come dimostrano le splendide scene in cui l’industriosa Milano notturna va a braccetto col primo dei Notturni di Chopin. Perché questo, come dimostra anche il finale, non è altro che il lavoro dell’autore: nutrirsi della quotidianità osservata e filtrare la vita vera per dimostrare quanto essa a volte vada oltre l’inventiva.

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