Sabato sera, per il secondo anno consecutivo, si è tenuto, al Teatro dei Differenti, un concerto tributo a Fabrizio De Andrè, dal titolo “La Buona Novella ed altre storie” realizzato da Progetto in La Minore e il coro Stereo Tipi. Faber (come lo chiamavano i suoi fan) il 18 febbraio scorso avrebbe compiuto 70 anni; era infatti nato a Genova nel 1940 in una ricca famiglia. Giovane irrequieto aveva scelto la Genova dei carrugi, là “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”. De Andrè ha cantato gli ultimi. Dalle puttane di Via del Campo, agli indiani d’America, dai rom ai poveri cristi. La sua prima canzone raccontava del Michè che si era impiccato in carcere perché “non poteva restare vent’anni in prigione lontano da te.”La morte sarà una presente molto costante nelle sue canzoni. Come quella di Piero, in un giorno di primavera ucciso da un uomo “con la divisa di un altro colore”, o come quella dell’amico Luigi Tenco a cui dedicherà “La Ballata degli impiccati”, o il dolore di Maria che davanti al Figlio che muore in un verso di atroce poesia dice: “Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”. O Marinella, “volata in cielo su una stella”. Proprio grazie alla fortunata interpretazione di questa canzone, da parte di Mina, De Andrè avrà grande visibilità. Lì inizierà il suo successo, alle spalle aveva già alcuni album dai risultati poco incoraggianti. Faber diventerà un mito, un simbolo in quegli anni così particolari.
Non credeva nel Dio delle Chiese ma credeva nel “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” : Gesù di Nazareth (su figlio lo chiamerà Cristiano). Realizzerà in pieno sessantotto un opera spiazzante come la “Buona Novella” ispirata ai vangeli apocrifi per cantare, pochi anni dopo, gli umili morti di provincia di Spoon River.
Durante il tour con la Pfm del 1979 sarà rapito dall’Anonima sarda insieme alla moglie Dori Ghezzi. Quando sarà rilasciato avrà parole di comprensione verso i suoi rapitori, da questa esperienza nascerà la struggente “Hotel Supramonte” e un album sui nativi d’ America e il loro sterminio, a cui seguirà uno disco “coraggioso” come “Crueza De Ma” interamente in genovese. Nel corso degli anni ottanta le sue apparizioni si faranno ancora più rade. Se ne sta all’Agnata a fare l’agricoltore e decide di apparire in pubblico solo quando ha qualcosa da dire, sempre con parole calibrate, precise taglienti.
Negli album “Le Nuvole” e “Anime Salve” canterà la solitudine e l’alienamento contemporaneo.
Negli ultimi anni della sua vita aveva ritrovato la serenità e un giorno, in cui le rocce e il mare si tingevano di rosa, aveva confessato, all’amico Vincenzo Mollica, la voglia di rivedere quel padre con cui aveva avuto un rapporto complicato e che gli aveva fatto giurare sul letto di morte di smettere di bere, salvandolo dall’alcolismo. Avrebbe voluto parlargli, rivederlo. Più di ogni altra cosa.
Il pescatore si è assopito l’11 gennaio 1999 in un giorno grigio, con il cielo basso. Una folla immensa assisterà ai suoi funerali. Mentre veniva portato per sempre su in Collina, davanti alla chiesa di Carignano, al balcone dell’Istituto Figlie del Sacro Cuore di Gesù e Maria era appeso uno striscione bianco, gonfiato dalla tramontana, con scritto “Grazie Fabrizio”.
Un bello spettacolo quello di ieri sera anche se era come mancasse qualcosa… la voce di Faber. Quella voce inconfondibile e inimitabile. Levigata da centinaia di sigarette. Quella voce profonda, sofferente, dolce. Coerente a ciò che diceva.
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