L’uomo che verrà

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L’UOMO CHE VERRA’Italia 2009di Giorgio Diritti ——-Quando l’orrore della storia irrompe nel ritmo della quotidianità. Siamo nell’inverno del 1943, in una piccola comunità rurale a ridosso dell’Appennino emiliano: un’infinita distesa di alture e coltivazioni interrotte qua e là da un podere o da una mestaina. Qui la vita contadina, immutabile e secolare nelle proprie abitudini, ha accolto nel proprio quotidiano le vicende della guerra, vissute come estranee e destinate comunque a scomparire col passare del tempo. Bisogna dare uova e vino ai soldati tedeschi che li esigono, ogni tanto bisogna rifugiarsi “in cisa” (
alla chiesa) per mettersi al riparo dai bombardamenti, si simpatizza con la banda un po’ disorganizzata dei partigiani, i “ribelli”, ma non ci si aggrega perché come il capofamiglia Armando (Claudio Casadio) si deve portare avanti la cura del podere “del paron”, il padrone per cui non si nutrono troppe simpatie. Nella casa colonica risiede e lavora la nutrita compagine familiare della piccola Martina (Greta Zuccheri Montanari, una splendida bambina di nove anni dagli occhi vecchi e saggi) che ha smesso di parlare da quando il fratellino le è morto tra le braccia. Ora che mamma Lena (Maya Sansa) è incinta, Martina passa i mesi ad aspettare la nascita del nuovo bambino: l’uomo che verrà. Il periodo della gravidanza si snoda sotto gli occhi di Martina, tra le ancestrali abitudini contadine, gli sfollamenti, la prima comunione, i rastrellamenti, i balli organizzati di nascosto dalla giovane zia Beniamina (Alba Rohrwacher). Finalmente, il 29 settembre del 1944, il fratellino nasce. Martina chiama il babbo: proviene del fumo dai casolari confinanti. Le SS hanno appena dato il via all’eccidio di Monte Sole.
L’uomo che verrà è molto più di un film sulla guerra. È un film essenzialmente antropologico. È commovente e straziante lo scorrere delle secolari abitudini contadine sullo schermo: ci parlano di una esistenza tanto vicina e tanto lontana, l’esistenza dei nostri nonni che per noi è oggi divenuta completamente estranea. Si sparigliano i covoni, si intrecciano cesta di vimini, si uccide un maiale nell’atrio di casa, tutelata da scalcinate statue dei santi, posti come numi tutelari all’ingresso. Si dorme tutti nella stessa camera perché lo spazio è quel che è, si prepara il pane in casa, le ragazze vanno a fare la serva in città, a malincuore si usa il prezioso “pitroil” per togliere i pidocchi alla piccola Martina. Tutto questo sonnolento e laborioso mondo è accompagnato dal musicale dialetto emiliano: la lingua italiana la si parla coi tedeschi, coi burocrati della città, con la maestra a scuola. Per il resto si utilizza l’arcano vocabolario dialettale: il film è interamente sottotitolato ma non ne soffre minimamente, tanto grande è il coinvolgimento dell’orecchio a familiarizzarsi coi suoni dei protagonisti. Protagonisti normali, quotidiani, schietti; non virtuosi, senza grandi ambizioni (emblematico: “Se uno è nato ignorante, ignorante deve restare”), di forte e indiscussa pietas familiare e religiosa (da notare la sottolineata presenza attiva e coraggiosa dei tanti sacerdoti caduti durante la strage). Le preoccupazioni sono quelle legate alla più immediata concretezza: la mamma va a pregare alla marginetta della Madonna partoriente, il papà si scontra con gli uffici per i passaggi di proprietà del podere. Si può supporre che se non ci fosse stata la strage, avrebbero potuto continuare a vivere così per altri dieci, cento, mille anni. Strage che irrompe improvvisamente e inaspettatamente nel film e viene raccontata con energia, asciuttezza. Il regista rinuncia a qualsiasi presa sensazionalistica e melodrammatica; le morti sono rappresentate in maniera estranea: un’inquadratura dall’alto, uno sguardo di sbieco, la visione dall’interno (come quella impressionante degli abitanti rinchiusi nella chiesa, cui viene lanciata una bomba dalla finestra), per lo più riprendendo gli assassini in atto di tirare il colpo finale. Il tutto accompagnato dal silenzio più reale, con una colonna sonora quasi assente che si traduce solo in qualche delicata nota di pianoforte o in una ninna nanna di antichi suoni.
Un film che insomma non è un’apologia di questa o quella parte, ma mostra le tante vittime innocenti travolte dall’efferata crudeltà della guerra e dalla bieca insensatezza di quegli uomini che decidono di farla.

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