LA PRIMA COSA BELLAdi Paolo VirzìItalia 2010 —————Bruno Michelucci (Valerio Mastandrea) fa l’insegnante in un istituto alberghiero di Milano, vive a scrocco dalla fidanzata Sandra (Fabrizia Sacchi) che lui si ostina a definire “coinquilina”, la quale non manca di rinfacciargli le giornate trascorse ai giardinetti pubblici con gli amici pusher, nonostante lui si definisca solo un “consumatore occasionale”. Un giorno, senza preavviso, compare da Livorno la sorella Valeria (Claudia Pandolfi): prega Bruno di rientrare nella città natale dopo tanti anni di assenza perché la loro madre Anna (Stefania Sandrelli) sta per spengersi a causa del cancro. Seguita controvoglia Valeria, Bruno ritrova nella città labronica una mamma che è sì malata terminale ma non per questo ha abbandonato la sua aurea estroversa, ingenua, affettuosa e un po’ imbarazzante. Parte così una
carrellata di flashback alternati al momento presente, in cui l’uomo ricorda la propria infanzia, la Livorno degli anni ’70, e quella giovane e bellissima mamma (Micaela Ramazzotti) scappata di casa dal marito carabiniere (Sergio Albelli) trascinando con sé i bambini tra storie e lavoretti occasionali, rifugi di fortuna, malignità della gente con mille difficoltà e il sorriso sempre sulle labbra, convinta che a risolvere i problemi di quell’esistenza randagia basti un motivetto cantato abbracciata ai suoi piccoli, sua unica ragione di vita. Sarà l’occasione per riconciliarsi con l’ingombrante figura materna che molto tempo prima l’aveva spinto alla fuga?
La prima cosa che colpisce nel film è l’imponente cast (ai già detti si aggiungano Marco Messeri, Isabella Cecchi, Dario Ballantini, Paolo Ruffini) in un vero e proprio stato di grazia, e una citazione a parte va fatta per i piccoli che interpretano i fratelli negli anni ’70, veri e propri gioielli di spontaneità e tempistica infantile. A regnare la pellicola sono però i due personaggi principali: un Mastandrea stralunato e rancoroso, che ben mostra i suoi buffi e travagliati tentativi di accettazione di mamma Anna che da giovane ha il volto della splendida Ramazzotti e in maturità della luminosa Sandrelli. Anna è il cuore pulsante della pellicola, il personaggio che, volenti o nolenti, colpisce e trascina le esistenze altrui con la forza del suo sorriso e del suo inguaribile ottimismo. Un carattere pervaso di naturalezza, scolpito negli eventi concreti dell’esistenza che poco ha di letterario e molto di quotidiano: una donna che accoglie a braccia aperte la vita per come viene, sempre col medesimo entusiasmo, sia che si tratti di fare la figurante in un film di Dino Risi, sia che si tratti di abitare nel sottoscala di un magazzino. Una figura femminile sì gioiosa ma non incosciente: non è infrequente che di fronte alle tante difficoltà scappi una lacrima o un attimo di scoramento, ma per amore dei suoi due bambini la malinconia viene fatta sparire subitaneamente da una canzonetta. Anna è quella che, a giudizio dell’etica familiare dei molti, si potrebbe definire una cattiva madre. Ma la realtà nei fatti si mostra completamente diversa: Anna ama profondamente i suoi figli, più di qualsiasi altra cosa, ma non crede che l’amore materno si debba riflettere nello stare sempre nella medesima casa, assicurando loro una figura paterna, rasando i capelli se prendono i pidocchi, facendoli studiare anziché giocare coi coetanei come ritiene la giudiziosa zia Leda. L’amore si esterna in semplice e puro affetto, incondizionato amore: niente le interessa al di fuori del bene dei suoi “cuccioli”, non cerca un lavoro ambizioso né di rifarsi una famiglia; accetta quello che la vita ha da darle, giorno per giorno. E a non comprendere Anna sono principalmente gli uomini, che inevitabilmente la bollano come una facile, con la condanna in primis dei due maschi che più le sono vicini, il marito e il figlio. Un marito possessivo e scostante che però non riesce fare a meno di lei e del ruolo forte che, nel bene o nel male, accompagnerà tutto il loro rapporto (“Con tuo padre, tante botte, tanti litigi, tante urla… ma è l’unico che mi ha voluto davvero bene); un figlio imbarazzato da quella vistosa presenza che sembra nello stesso tempo rifuggire e cercare, irrinunciabile tanto da dover mettere tra loro centinaia di chilometri per superare il senso d’inadeguatezza che perseguita il personaggio per tutta la vita (“Perché sono così infelice, mamma?” sussurra il desolato Mastandrea di fronte alla ritrovata figura materna).
Una riconciliazione dunque, che può passare solo attraverso l’accettazione della genitrice per quella che è, nella sua vitalità e nella sua forza, contornata da un mondo familiare sempre più debole sotto i colpi dello sfaldamento e delle incertezze, in un groviglio di sottostorie tipiche della quotidianità.
La sceneggiatura, impeccabile in ogni suo passaggio, abbonda di lacrime ma anche di risate, tutto coronato dalla toccante versione della canzone del titolo rifatta da Malika Ayane. Gli elementi sinora citati e i molti altri che si possono cogliere in questa pellicola possono far trascurare un commento sulla regia: l’unica affermazione da esternare è che Virzì ha davvero creato un capolavoro.
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