LO SPAZIO BIANCOdi Francesca ComenciniItalia 2009Lo “spazio bianco” del titolo è l’incubatrice in cui Irene, nata prematura al sesto mese di gestazione, deve trascorrere il periodo di tempo che la porterà a venire al mondo definitivamente. Pochi mesi prima la mamma della piccola, Maria (Margherita Buy), insegnante presso una scuola serale di Napoli, trascorre le proprie giornate tra il lavoro, le uscite con l’amico e collega Fabrizio (Giovanni Ludeno) e lunghi pomeriggi da sola al cinema; almeno finché una fugace relazione con Pietro (Guido Caprino) la fa rimanere incinta. Dopo la nascita Maria vive il suo personale “spazio bianco”: un limbo di tempo sospeso ed incerto da passare a fianco dell’incubatrice, in attesa di un cambiamento, in meglio o in peggio, che sembra non arrivare mai.Il film, tratto dall’omonimo libro di Valeria Parrella, si incentra su questa figura femminile che va a costruirsi un’identità nel corso della pellicola: non si tratta di un personaggio particolarmente forte e vibrante bensì di una donna come tante che affronta i problemi quotidiani con un rigore logico e un’indipendenza che la conducono a vivere con sicurezza la sua esistenza di quarantenne abbastanza insolita per i canoni cui ci abitua la società; single, un impiego non particolarmente elevato, ma a suo modo serena ed equilibrata. La gravidanza è inizialmente uno shock ma i problemi, tra cui la presenza del padre naturale (puramente formale dopo il rifiuto di questi), sono superati senza eccessivo dolore né distacco; l’accettazione della bambina, che sembra già risolta nel periodo di gestazione, subisce un improvviso blocco con il parto. Maria non desidera creare un rapporto con quel corpicino martoriato da flebo e tubi, che potrebbe esalare l’ultimo respiro da un istante all’altro; la progressiva
accettazione della bambina avviene nel dolore intimo e quotidiano (emblematico il momento in cui, dopo un’iniziale reticenza, decide di farne mettere il nome sull’incubatrice). La difficoltà maggiore è l’impossibilità di costruire quel rapporto e quel dialogo tanto ricercato: le giornate di Maria si trasformano inevitabilmente in un lungo monologo dove suo unico interlocutore è il macchinario che trasmette il battito e le pulsioni vitali della piccola Irene. E, inevitabilmente, queste giornate diventano una litania angosciante e delirante in cui la donna vive in ospedale senza andare più al lavoro, “sennò il tempo che non ho passato con mia figlia chi me lo ridà?” (una scelta molto azzeccata, in questo contesto, è segnare il trascorrere del tempo attraverso piccoli dettagli quotidiani, come ad esempio la ricrescita dei capelli della protagonista).
Si può dire che si tratta di un film squisitamente femminile: gli uomini restano una presenza non negativa ma superficiale, costituendo un mondo a parte non in grado di afferrare il dramma in atto. La maternità, impara Maria, non è quella che si può immaginare come evidente concessione ma è una cosa sofferta, da conquistare, talvolta addirittura assurdamente negata (come ad esempio per la magistrata sua vicina di casa costretta a vivere lontano dai figli).
Napoli è uno scenario molto suggestivo, non solo dal punto di vista estetico con l’alternarsi di dedali di vicoletti e ampie scene marine (c’è addirittura una scena ambientata nel famigerato quartiere delle Vele) ma anche dal punto di vista della concezione quotidiana e concreta della malavita (vedi i condomini che si preoccupano del trasloco di un magistrato nel loro complesso) e delle mille storie che si intrecciano sotto gli occhi di Maria durante i viaggi in tram.
Alcune scelte purtroppo risultano poco comprensibili: accenniamo solo ai flashback che, decontestualizzati, sembrano appesantire la storia, e ad alcune figure secondarie (l’ex fidanzato di Maria, la relazione col giovane dottore, alcuni personaggi della scuola) di cui non si capisce l’utilità.
La colonna sonora, molto ricercata, culmina sulle note di Where is my love di Cat Power, ninna nanna che Maria non può cantare alla sua bambina.
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