CHANGELINGUSA 2008di Clint Eastwood – Se l’ultimo film di Clint Eastwood ci raccontasse una storia romanzata sarebbe atroce; dato che ci illustra una vicenda realmente accaduta è ancora più shockante. Siamo nel 1928 e la città di Los Angeles è succube del locale dipartimento di polizia, continuo esempio di violenze e corruzione. Christine Collins (Angelina Jolie) è una ragazza madre che una mattina come tante altre si reca a lavoro lasciando solo a casa il giudizioso e amatissimo figlio Walter (Gattlin Griffith). Rientrando la tragica scoperta: Walter è sparito; dopo averlo cercato invano nel quartiere Christine chiama
la polizia che avvia le indagini. Qualche mese dopo finalmente la chiamata: il figlio è stato ritrovato in Illinois e la madre può andare a riprenderlo alla stazione. Il bambino che le viene riconsegnato alla stazione somiglia a Walter ma Christine da subito non ha dubbi: “Questo non è mio figlio”. Il capitano Jones (Jeffrey Donovan), responsabile dell’indagine, la convince di essere solo sconvolta e le suggerisce di portare il bambino a casa per provarlo qualche giorno (!). Ma la donna è assolutamente convinta: quel ragazzino è un estraneo e la polizia dovrebbe riprendere le ricerche invece di insistere con squallidi mezzi a convincerla del contrario. Supportata dal reverendo Gustav Briegleb (John Malkovich) Christine inizia una lunga e terribile crociata per ritrovare il bambino, arrivando a scontrarsi con l’intero police department della città, che la ostacola ed arriva a chiuderla in manicomio per metterla a tacere; almeno finché un’altra indagine interverrà a sconvolgere l’intero caso.
La pellicola può essere distinta in due parti: la prima, più riuscita, è dominata dalla distruzione del nucleo familiare e dalla disperata ricerca; la seconda è incentrata sugli atti processuali e le reazioni della polizia. In effetti chi fa la peggior figura è proprio questo dipartimento: ancor più crudele di un serial killer, ancor più sporco della malavita stessa. Come giudicare altrimenti poliziotti che, per recuperare la pessima immagine e liquidare velocemente un caso, consegnano ad una madre un bambino sbagliato e fanno di tutto per far apparire le sue reazioni un caso di schizofrenia, arrivando a farla chiudere arbitrariamente in un manicomio dove molte altre donne risultano “codice 12” (cioè il cui internamento è stato richiesto dalla polizia stessa per i motivi più assurdi ed umilianti).
La prima parte del film, come si diceva, è molto ben fatta: asciutta, quasi cronachistica, rappresenta con dignità l’affetto e la disperazione della madre rimasta sola; ma è anche colma di solitudine: Christine e Walter sono soli e vivono uno per l’altro (esiste un padre, ma è una figura assente, appena accennata), non c’è ombra di vicini, amici o altre persone familiari. Fin qui la pellicola coinvolge e interessa; il seguito lavora su canoni tradizionali e piuttosto prevedibili, soprattutto nelle parti processuali (anche se lo stile di Eastwood riesce a mantenere tutto apprezzabilmente sottotono); la sceneggiatura soffre in inutili lungaggini e pathos mentre intorno alla protagonista appare improvvisamente un mondo solidale, fatto di persone e non più di individui. Persone che però rimangono costrette entro un rigoroso manicheismo e riescono a dar vita a personaggi discreti nel loro ruolo ma poveri di complessità psicologica. Ne soffrono le prove degli attori: è buono il cast di contorno, è gradevole ma un poco monotona la Jolie, è giusto sufficiente Malkovich.
La sceneggiatura come sopra accennato, è buona, molto sensibile e concreta (soprattutto nella ripetitività delle reazioni della madre; straziante l’insistenza delle sue telefonate a tutti i dipartimenti d’America) ma si perde nella seconda parte in aspetti scontati e divagazioni non necessarie. Sono eccellenti gli aspetti tecnici: la fotografia dai colori freddi e chiari, come una cartolina d’epoca, il montaggio che riesce a trattenere costantemente l’attenzione, la colonna sonora discreta e quasi assente, appena accennata in un malinconico tema.
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